Ancora una notte, piccola città delle lacrime

almost blue

Littlepoints…Almost blue

È andata che Simone Sauza ci ha inviato un racconto autunnale in pieno luglio e noi, ben sapendolo, non l’abbiamo letto fino a ieri sera – quando è cambiato il vento ed è scappato il primo starnutiello settembrino (mannaja l’estate che muore) – ma Ancora una notte, piccola città delle lacrime è affrontare e assaporare un addio, è la fine di un luogo interiore e la sua distruzione, che avviene con la partenza; insomma un racconto che troveremo nella classifica dei migliori racconti del prossimo anno. L’illustrazione è di Littlepoints…

A proposito di Simone: dovrebbe spiegarci questa cosetta qua. Il testo dice: “Pagina fan non ufficiale di ricerca e studio gestita dal collettivo anarco-satanista BIERDE SOCIETAS, fondato da Valeria Marzano e Simone Sauza”. Dopo un iniziale “MA STIAMO SCHERZANDO?!”, Ramses ha tirato un respiro profondo e ha cercato di spiegarsi la cosa in maniera razionale; ma ecco che è giunto Frau a esplicitare la domanda che attanagliava la redazione tutta: “Un’altra scissione?!”

Eh già perché sarebbero due a ‘sto punto, dato che – ridendo e provocando – La Nuova Guacamole ha concretizzato la propria, di patetica scissione, e ha pubblicato il primo orrendo racconto. Ve lo mettiamo qui perché siamo indignati dalla bassezza umana che è possibile raggiungere dietro una tastiera. Abbiamo forse trovato il nuovo re dei racconti incel, con buona pace dell’ormai pensionante Paolo Gamerro? (Uè siamo ironici, il testo fondante del nuovo corso Verde è Xenofemminismo di Helen Hester, non pubblicheremmo racconti del genere manco per ridere e no, non stiamo ridendo: qui la situazione è più grave di quando Luccone ci disse che lo stavamo cannibalizzando o di quando Sarmi Zegetusa fermò Alfredo Laurenzi a PLPL, convinto che fosse di Verde Rivista, chiedendogli se gli vendeva due grammate e invece quell’altro era un informatore de La Nuova Digos e insomma è una storia lunga che però vale la pena di essere raccontata, ma non qui, ci vediamo a Firenze Rivista, bischeri!).

Tempi bui, dunque, tempi in cui stringerci a coorte prima che Ramses II torni a dire: “STO MALE!”

A Jonas Mekas,
angelo custode
di tutti quei film
che gli occhi e le menti
di miliardi di individui
registrano privatamente
al riparo dalla civiltà
ogni giorno
in ogni tempo
in ogni spazio
dall’alba della Vita
fino all’Estinzione

Tutti i pensieri sono preghiere a qualche bestia ignota.
Ora la testa è una grande chiesa affollata.
Le immagini della città scorrono come il rullo di una pellicola. Berlino sfugge mentre il mio corpo si fonde con l’automobile fino a diventare un solo essere, un essere che va via, la cui essenza è di allontanarsi dalle cose. Un’amica mi sta accompagnando all’aeroporto, mi guida, guida questo corpo-macchina che fugge, per tornare in un luogo da cui era a sua volta fuggito.

[…]

C’è una signora che ruota l’ombrello colorato disegnando psichedelia nell’aria, i bambini saltano in una pozzanghera e i suoni si allungano come se volessero fuggire mentre cerco di trattenerli e loro si stirano e si stirano e si stirano diventando altro. Giriamo un angolo e il mio-essere-macchina frena bruscamente. Un uomo con occhiali tondi e montatura trasparente attraversa la strada, ci ringrazia per averlo fatto passare anche se non ci sono le strisce pedonali, ha l’aria abbastanza felice da essere uno che non lo è affatto.

[…]

(Ieri notte, mentre fumavo una sigaretta che sapeva d’insonnia, ho incontrato il fantasma di Zoe Lünd dalle parti di Böhmischer Strasse. Era seduta su una panchina. Si guardava la punta dei piedi nudi e sporchi, avvolta in un cappotto cremisi di una taglia più grande. Più mi avvicinavo, più le mie orecchie intercettavano un rumore sommesso. Ogni suo respiro era carico di lacrime. Quando le fui vicino, si ridestò di scatto, passandosi le dita terrose sulle guance e sugli occhi. Mi sedetti anche io sulla panchina. Senza parlare, Zoe Lünd appoggiò la piccola testa sulla mia spalla. Adesso i capelli erano puliti; un odore di shampoo alla frutta e ferro sanguigno. Nel momento in cui la mia testa veniva attratta dal polo magnetico del suo viso e delle sue labbra, lei scomparve.
Un topo era fuggito sotto una macchina producendo un rumore metallico. Il quartiere boemo dormiva in un alveo di eleganza e macerie; un senso di caducità si poggiava su tutte le cose come uno strato di polvere.
Zoe Lünd ricomparve di fronte a me, in piedi. Ora aveva un vestito da suora che le incorniciava ancora di più il viso di bambina, con il rossetto calcato sulle labbra, e una pistola in mano. Poi il suo aspetto cambiò di nuovo. Sembrava più alta, il volto non era più quello di una bambina. Ora era enigma e glamour, diva e tossicodipendente, junkie hipster star al neon, le luci di New York negli occhi, eterna musa della sovversione, i buchi sulle braccia erano semi da cui spuntavano flore colorate, piante aliene che vibravano nell’aria pesante di Neukölln, e dai fori l’eroina esondava innaffiando il verde delle aiuole, e lei era una divinità panica che assaltava gli ultimi bastioni delle mie strutture psichiche.
Ora mi guardava in posa, con una mano su un fianco e il cappello a tesa larga leggermente spostato di lato. Guardavo le sue mani, le sue braccia, le sue gambe, ogni centimetro abbandonato dalla stoffa. Sentivo la necessità di premere sulla sua pelle di morte, sentire che tipo di epidermide rivestisse quel corpo, esplorare le falangi e, infine, percorrere le strade invisibili delle vene.
Aveva cominciato a parlare in una lingua ignota, parlava di città. Mi disse che le città sono sempre città interiori. Diceva che non importa quanto abbiamo battuto a piedi un posto, lo abbiamo abitato, inalato la sua aria fino a confondere l’odore dei marciapiedi con un senso di familiarità. Le città non esistono se non come forme dell’immaginario. Che poi è quasi sempre un immaginario d’altri. Nella mia New York non ci sono gli Avenue alberati. Nella mia New York ci sono i volantini Fear City, John Lurie che mi vomita su una scarpa mentre gli sto dicendo che ha una camicia bellissima, un produttore che mi stringe sempre più forte la gola mentre sento il suo cazzo gonfiarsi dentro dei pantaloni di lino a righe, un concerto dei Theoretical Girls in cui sono uscita dopo un quarto d’ora. Sono stata anche a Buenos Aires, nella Buenos Aires di Cortazar, in quella esplosiva e fatiscente di Roberto Arlt, anche in quella che porta il nome di Santa Maria in Juan Carlos Onetti, mescolata ai frammenti mentali dell’infanzia trascorsa a Montevideo. Evidentemente anche per Onetti ogni città è una città interiore. Lo spazio urbano, semplicemente, non esiste; esistono i paesaggi interiori, la geografia della psiche. Per esempio sono stata tante volte a Londra. Ma per me Londra sarà sempre la sensazione di una notte spettrale a Camden con un tizio con la faccia coperta di sangue che mi chiede dei soldi, mentre aspetto una Mercedes che arriva e abbassa il finestrino per vendermi brown sugar cinese, mentre intorno domina una sensazione di silenzio nonostante sirene di ambulanze, cani randagi e vetri di bottiglia.
Disse così. Io non rispondevo nulla e la guardavo. Volute di fumo sembravano librarsi dalle sue spalle. Zoe Lünd mi guardava con un accenno di sorriso che poteva essere solo la deformazione di un viso attraversato dalle prime lacrime di un pianto che dura da un tempo immemore, dalla nascita, e si protrae, nascosto nel buio dell’io, oltre il tempo di una vita.
Poi il fumo, sempre più denso, compì la sua metamorfosi.
Così fu il fuoco, intorno e dentro Zoe Lünd, sulla sua testa e tra le gambe, mentre lei continuava a guardarmi, anche i suoi occhi ardevano, e io la vedevo sorridere, salda nella sua posa, come se le fiamme non stessero bruciando la sua carne, ma fossero solo un gioco della mente, Zoe Lünd non diceva nulla e bruciava, ormai nera da confondersi con la notte, ormai cenere pronta a disgregarsi e unirsi alla polvere.
Così fu il fuoco, e così arrivò anche il soffio del vento).

[…]

Tutto continua a fluire, i miei occhi sono il finestrino di un treno in cui il paesaggio scorre, ma questo non è un paesaggio, è qualcosa di vitale, di pulsante, per cui non riesco a trovare una parola della lingua che possa contenerla; è una vecchia ferma all’angolo della Rothaus con delle molliche in mano anche se non ci sono piccioni in giro, eppure lei aspetta tranquilla perché sa – cosa? – non lo so a dire il vero, però le sue rughe e il suo sorriso parlano il linguaggio della convinzione.

[…]

C’è il circo frenetico dove i colori esplodono e si ricompongono attraversando i corpi di uomini e animali, le mani applaudono picchiandosi tra di loro rivelando l’inganno, testimoniando la sofferenza che giace nel cuore di ogni circo, e questo circo in particolare, certo, non è qui davanti a me; semplicemente risale, risale da dietro ai miei occhi, da dietro la memoria, e poi esplode qui davanti, mischiandosi al traffico, in dissolvenza, fade in e fade out, sovrapponendosi nella pellicola di questo spicchio di quotidiano.

[…]

Il corpo-macchina attraversa lo spazio che si staglia sopra la distesa uniforme di nuvole serali. Il neon di un Burger King sfiora le poche abitazioni circostanti; è un pallore che oscura invece di illuminare. Qualche metro più avanti c’è un palazzone scrostato. Al secondo piano è saltata la luce. Riesco a vedere delle sagome che smuovono l’oscurità. Ricordo quando ero bambino e saltava la corrente. Ricordo il batticuore, mia madre che urla il mio nome per assicurarsi che il buio non mi abbia inghiottito per sempre. Il cervello ha già dato ordine alle ghiandole surrenali di inondare l’organismo di adrenalina e cortisolo. Ma sono un bambino, e la paura in quest’età ha una qualità differente che scombina il limite invisibile tra smarrimento ed esaltazione. Nel petto avverto quel sommovimento che svanisce man mano che si diventa grandi, quella sensazione che solo un bambino di fronte alla magia dello sparire di tutte le cose riesce a provare.

[…]

Una ragazza con i capelli rosa si muove ritmicamente vicino a una fermata del tram, una mano appoggiata alle cuffie, come l’ultimo ballo prima che le luci dell’alba comincino ad accompagnare le persone fuori dal club, nella fuoriuscita dalla grotta mitica in cui si abbandonano gli idoli dell’eternità e dell’infinito e tutti quei beat e quelle frequenze si tramutano in fantasmi acustici codeinici rallentati e sbiaditi e dilatati, e tutti questi frammenti di assenza si riverberano e si sovrappongono alle immagini della città dormiente, creatura d’altro mondo immersa nella sorgente rosso sangue del mattino, ultima visione profetica prima di raggiungere la salvezza domestica, quando la spirale di suoni e colori, dancehall privata post-apocalisse, scivola fino al letto e al sonno che piomba come un meteorite.

[…]

Tutto continua a pulsare, tranne il mio sguardo che invece è statico, dovrebbe fluire ma è statico, è il punto cieco del mondo, è il punto cieco da cui si origina il mondo che vivo e che ora sta fluendo mentre la macchina continua ad andare. Non vorrei lasciare questa piccola città delle lacrime; lasciare una città significa morire. Eppure moriamo in continuazione, moriamo tutte le volte che una catena di significati, che fino a quel momento ricopriva un frammento di vita, svanisce nel nulla: dirsi addio, mio non eterno amore, guardare le finestre dell’ultima casa in cui abbiamo abitato, guardarle mentre ci guardano e ci ricordano che ogni decisione e ogni cambiamento sono già un omicidio. E ogni nascita è già una rottura, il decesso di un piccolo mondo, e quindi, ancora una volta, ancora una volta unica la fine del mondo, di tutti i mondi che si intersecano e costituiscono il nostro orizzonte. Su questa finzione del linguaggio in cui viviamo, questa glassa di significati che appiccichiamo sopra le cose inerti, c’è l’unico iato tra l’uomo e l’animale, tra l’animale-delirante e l’animale-vivente, quel baratro che c’è tra toccare una foglia (contemplarla con le mani ed essere attraversati da flussi emotivi che sono fuochi d’artifici) e il grillo che poggia ignaro su questa materia organica attraversata da venature e la cui luce si perde nel buco nero delle mie pupille per essere processata in un’informazione che chiamo v e r d e.
E tutti questi flussi nel mondo umano si interrompono di continuo e ripartono esplodendo da altri punti, come un timelapse accelerato, come una danza macabra di eterno inizio e fine. «L’animale è povero di mondo, l’uomo è formatore di mondo», eppure questo mondo, di cui l’uomo è un piccolo piccolo piccolo Dio, è un mondo di rovine in potenza e in atto, un intersecarsi di microcosmi per natura in via di disgregazione. Tutto ciò che c’è di eterno è solo la distruzione. Tutto ciò che esiste è tale sulla base di una serie di assenze che lo precedono. Ecco il motivo di queste piccole lacrime che sfocano la vista di questa piccola città interiore che piano si allontana. L’aeroporto di Tempelhof, dimentico di essere ormai un relitto abbandonato, attende il mio corpo-macchina sotto un gruppo di nubi che sembrano proteggerlo da se stesso. Ma noi siamo diretti verso nord.
in quanto umani
condannati
ad affrontare
in ogni tempo
in ogni spazio
la parola
fine.

Simone Sauza

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