
Federica Sabelli
Raga oggi non si scherza un cazzo. Qui sempre Jimbo the stagista at the keyboard. Editoriale bello dritto senza orpelli per dirvi che oggi torna il NOVO! PAZZESCO! ROMANO!, la rubrica che sta maleducatamente ridefinendo i canoni della lit-web e rende francamente (ci sentiamo di dirlo) obsoleto ogni altro tipo di scrittura. Oggi in da house un abnorme Stefano Felici che ci droppa from the holidays la seconda puntata del Brasilesss: Storia dell’occhio (qui la prima puntata). Chi è Er Brasiliano?, I hear you ask. Be’ è “una figura iperpostdecostruzionist-moderna”, da non confondere con un cojone qualsiasi mi raccomando che questo ce se magna. La domanda è: può una riflessione che ha tutti i caratteri dell’operazione memetica usare una figura assurda come quella del Brasiliano per penetrare gli strati più torbidi della società moderna? Boh. L’illustrazione è realizzata appositamente di Federica Sabelli.
Sono stato invitato dal giornalista Paolo Del Debbio a parlare degli immigrati su Rete 4. Mi ha proprio telefonato lui di persona, mi ha chiesto se me la sentivo di dire la mia, senza peli sulla lingua, diciamo, e io gli ho risposto di sì, nessun problema, er Brasiliano, anzi, è contento che finalmente lo si chiama a parlare davanti a tutta Italia di come la pensa. Che poi, quello che penso io è quello che pensano tutti. Ma nessuno ci ha il coraggio di dirlo in televisione.
Mi hanno pagato il biglietto del treno e l’albergo. Sono arrivato a Milano in tre ore e mezza con Italo.
A Milano, per me, è stata la prima volta che ci sono stato. E devo dire oh: bella cazzo di città. Almeno il centro. Bello il Duomo con la Madonnina, belle le gallerie, i palazzi, le piazzete con le opere d’arte di ferro, i tram che passano dappertutto. Ordinata, pulita, i negozietti precisi, la gente vestita di marca. Per un po’ mi sono sentito come uno straniero brutto, tipo rumeno, proprio uno che con questa città non c’entrava un cazzo; poi mi sono detto ao, sei er Brasilesss, wuuuh!… Ma che stai a scherza’? Je piscio ‘n testa io ai milanesi. Io ci ho tutta Roma Caput Mundi sulle spalle. Me faccio intimorire da quattro stronzi cor piumino d’oca da seicento bombe? Ma de che parlàmo.
M’ha un po’ deluso l’hotel. Un tre stelle marrone e giallo, proprio spoglio. Speravo meglio. Ma alla fine sticazzi.
Ho fatto una ventina di storie su Instagram. Dal bagno, dal balconcino e dal letto. Stanno tutti con me. Uno in privato m’ha scritto “rompeje er culo”. Fratellino, sto qua apposta. Stasera faccio la magia. Prendo quel cazzo di microfono e butto giù lo studio. Non mi sono preparato un cazzo, quello che dico ce l’ho tutto in testa. Ma da tanto, eh: da almeno vent’anni.
Prima di partire sono andato dal barbiere. Da “Resilienza” a Ponte Milvio. Mi sono fatto fare la sfumatura alta: a pelle sotto, mezzo centimetro sopra. La barba lunghetta ma tutta pareggiata.
Ci ho una maglietta nera aderente, di quelle stretch, che mi si vede proprio la forma dei muscoli del corpo. Pure il jeans bello aderente. Mi si intuisce quanto cazzo ci ho grosso il pacco. Al cameraman tocca che glielo dico: aripìame che se vede er pacco, quando parlo. Ce tengo.
*
Buonasera, Signor Del Debbio. La ringrazio per l’invito. Sì, sono pronto. Niente ansietta, no, ma non diciamo cazzate, per cortesia. Sono cresciuto per strada, a Roma sono un imperatore. Aspettavo ‘sto momento da una vita. L’occhio? No, niente, una cazzata. Poi gliela racconto dopo la trasmissione. Signor Del Debbio, dico davvero, è proprio una scemenza, giuro, adesso mi voglio concentrare un attimino su cosa dire in trasmissione. Ma davvero vuole saperlo subito? È la prima volta che vede un occhio così… Eh? Ceru-che? Ceruleo? No, no, ci vedo, non sono cieco. Le giuro che dopo le dico tutto. No, ma quale coltellata, lo vede?, non ci ho segni del genere, è proprio una stronzata, mi vergogno pure a raccontarla per quanto è scema. (Ao. Porcoddio. ‘Shto ‘nfame demmerda. Mo j’ammollo ‘na ciavattata ‘mbocca, si continua.)
Ecco il coglione dello studio che m’allunga il microfono. Mi alzo, do due colpi di tosse, m’alliscio la barba e mi dico: daje, Brasi’.
Allora, innanzitutto buonasera a tutti. Come ha detto Paolo Del Debbio, sono il Brasiliano, detto anche Er Brasile. Io vivo in borgata. Ci vivo praticamente da sempre. La borgata mia non è facile, non è per tutti. A un certo punto ci si rende conto che ci vuole l’ordine. Lo stato ci manda le guardie, ma le guardie non ci capiscono un cazzo su quello che devono da fare. L’ordine allora ho pensato che era meglio se lo davo io. E così ho fatto. Io baso tutto sul rispetto reciproco, diciamo, niente di tanto filosofico. Semplice. Ognuno si deve guardare agli affari suoi, ci ha i suoi doveri e i suoi diritti, certo. Ecco, ecco, mo ci arrivo ai neri, ai rom e agli immigrati. Questa gente, e lo dico per esperienza, perché sto per strada e li vedo dalla mattina alla sera, no come parecchia gente che sta in questo studio, mi dispiace dirlo ma anche lei, Signor Del Debbio, che ne volete sapere… Io gli zingari e i neri li vedo appena metto il naso fuori di casa: è gente che le regole non gliene frega un cazzo, ti fanno quelle faccette da vittima, ti chiamano “fratello”, ma fratello di chi? Io i miei fratelli ce li ho, ma ci ho condiviso le esperienze, belle e brutte, soprattutto le brutte. Questo arriva, non gli va di fare un cazzo, perché si sa, si vede, nessuno di questi cerca di lavorare, non sanno fare un cazzo, mo si mettono a scopare per terra le foglie e vogliono le monetine. Questa gente, stavo dicendo, arriva e ti chiama fratello. Ma ritorna a ciondolare al paese tuo. Poi provi a parlarci e loro alzano pure la voce, provano a alzare le mani. Se di notte trovano qualche ragazzetta da sola, lo sapete che succede, sì… Ecco. Facciamo che mettiamo un limite a queste cose. Io il mio quartiere lo tengo sotto controllo, e sì, di menare qualche nero e qualche zingaro mi è capitato. Non me ne pento, lo rifaccio se ce n’è bisogno. La sicurezza e la mia gente prima di tutto e tutti.
Del Debbio mi fa segno di tagliare, perché tocca alla pubblicità. Col microfono aperto e ancora in mano, chiedo se mi fa riprendere il discorso dopo la pausa, e lui risponde di sì. Grazie Del Debbio, dico io. E giù con l’applauso.
Vede, Signor Del Debbio, io posso pure sembrare un po’ rozzo col tono della voce e la parlata romanaccia, ho studiato poco sui libri ma ho imparato tanto: per strada, in galera, a casa, allo stadio… Mi dica un posto e io ci sono stato. Pure in palestra, certo. Guarda che branda che sono. Va bene, torniamo al nocciolo della questione, come si dice. A me non mi si può venire a dire che sono razzista. Io se vedo un nero che rispetta le mie regole, le regole che poi sono di tutto il quartiere, non gli dico nemmeno “a”, non me lo filo proprio. Però nel momento in cui vieni a fare casino, a interrompere la pace della borgata, allora te le do, te le do pure forti, perché devi capire… Buoni, buoni, buoni tutti, gli applausi li fate dopo. Dicevo, se fa casino l’italiano gliele do comunque, stia tranquillo; ma lui qua c’è nato, non è andato al paese loro a rompere il cazzo, a rubare, a violentare le donne, a chiedere gli spicci davanti ogni cazzo di bar e supermercato. Non ci sta più spazio qua in borgata: stiamo come in un alveare, siamo troppi, ci volete far esplodere? Ci dovete cacciare a noi? Ditecelo subito se ci volete rimpiazzare coi rom, i neri e i musulmani, che così cominciamo a scendere per strada e cominciamo a fa’ la guera…
Giù un altro applauso, bello forte, con qualcuno che urla pure.
*
Del Debbio mi aspetta nel suo camerino. Io mi do una sciacquata al viso, bevo un bicchieretto d’acqua, mi do un’asciugata, poi vado.
Gli busso alla porta. Due colpi belli decisi. Mentre aspetto che m’apre, mi rendo conto che mi fa male la mandibola destra. I secondi passano e questo non si vede e non si sente. Busso di nuovo due volte, un po’ più forte. Allora sento la sua voce, dice: arrivo!
Mi apre la porta. Sta in camicia, con tanto di cravatta ancora annodata, boxer bianchi e calzini sottili e lunghi, rossi come la cravatta. Chiudi tu, chiudi tu, mi fa. Poi mi gira le spalle e mi domanda, con un tono di voce pure mezzo seccato, se voglio finalmente raccontargli la storia dell’occhio. Ao, penso io, ma che cazzo sta a fa’ questo? Ma davero? Se vòle mette contro de me? Ci ha le palle peffà er duro co’ me? A un certo punto, Del Debbio prende un bicchierino di plastica con dentro un po’ di caffè, me lo dà, dice che ci sta dentro mezzo cucchiaino di zucchero. Io me lo guardo come per dire ao, ma te stai a rende conto de come cazzo me stai a tratta’? Mica so’ tu’ fio, nemmeno amico tuo. Però lì per lì mi viene di prendere ‘sto bicchierino e mandarlo giù. E dopo dico pure grazie.
Signor Del Debbio, io l’ho avvisata, ‘sta storia è proprio una storiella, una cazzata, insisto. E sentiamola, sentiamola, per dio!, fa lui, mezzo incazzato. Si riàrza la voce je parto, penso. Respiro lentamente e cerco di calmarmi. Dico che va bene. Raccontàmoje ‘sta storia dell’occhio.
Era il duemilaquattro. Stavo a Campo de’ Fiori con tre amici miei. Saranno state le undici di sera. I primi d’agosto. Roma mezza vuota, tutte le facce che vedevi erano turisti.
Entriamo in un posto dove di solito si vanno a ubriacare le comitive di studenti americani. Ci sta sempre qualche bella cavalla di queste bionde, con gli occhi azzurri, il culo fatto bene, tondo, alto e sodo, che quando parlano non capisci un cazzo, e glielo vorresti mettere subito in mano invece di perdere quella mezz’ora buona che butti a fare il mimo per dirgli che ti va di scopare e non di stare lì a imparare l’inglese.
Dopo neanche cinque minuti al bancone, con una birretta in mano, capiamo subito che aria tira: poca roba. Dico a livello di fica. Altra serata da cazzo in mano tipo canna da pesca. Allora facciamo per uscire, e mentre usciamo entrano quattro pischelli mi sa inglesi o irlandesi, tutti biondi rosci, e uno di loro, che m’arrivava al mento, mi urta bello forte, mi dà proprio una spallata per passare. Gli dico “Ao, mortacci tua, ma che cazzo fai?”, e quello sorride come un deficiente. Poi non lo so, tira su le braccia e piega gli avambracci verso le spalle, come a fare il gesto dei muscoli, e lì capisco che mi sta prendendo per il culo, come mi volesse dire “Sei forte, ammazza quanto sei grosso”. Io nel duemilaquattro non ero l’uomo che sono oggi. Ma proprio per niente. Quindi che ho fatto: ho preso per il collo ‘sto pischello e me lo sono portato fuori.
Gli amici miei mi si sono aggrappati alle spalle, si sono messi a urlare STA’ BONO, CE STANNO LE GUARDIE, STA’ BONO, QUESTO L’AMMAZZI, ma io ormai ero partito, gli ho dato un paio di ganci sulla mascella, al terzo sono andato liscio, perché quello era già finito per terra. M’è parso un pupazzo di gomma. Dopodiché uno dei miei amici m’ha trascinato per un braccio e s’è messo a correre, pure l’altro mio amico correva, e così mi sono messo a correre pure io: siamo scomparsi per i vicoletti, siamo sbucati su Ponte Sisto, scappando abbiamo ribaltato pure il banchetto di cianfrusaglie di un negro, insomma ci siamo proprio dati.
Correvo seguendo ‘sti due miei amici, molto più veloci di me. A un certo punto mi distanziano di parecchio. Io per stargli dietro mi scordo di tutto: della gente, delle macchine… Ecco, proprio attraversando la strada di corsa, non mi sono accorto che era rosso per i pedoni: m’ha preso in pieno uno che sfrecciava sul motorino. Un cinquantino. Mica lo so come ho fatto a salvarmi. Mi ricordo solo un dolore della madonna alla gamba e al fianco destro. Poi sono cascato di testa e ho perso i sensi, m’hanno detto.
Mi risveglio intontito, ma anche più che intontito, come se ci avessi la testa sott’acqua, a casa del mio fratellino Pappetto. Fratellino acquisito, s’intende. Chiamo fratellini tutti i miei amici veri, quelli più stretti, quelli con cui ho condiviso le sofferenze più amare, insomma.
Quindi mi risveglio intontito a casa di Pappetto. Lui cerca di parlarmi ma io vedo solo che muove la bocca, non mi arrivano i suoni. Dopo un po’ di questa pantomima, se ne va in cucina e poi torna con uno straccio chiuso a sacchetto, col ghiaccio dentro, e me lo preme sull’occhio destro. Ammazza che botto che hai fatto, mi dice Pappetto. Io non riesco nemmeno a rispondergli. Nemmanco te se vede più l’occhio, continua lui.
Il dolore è così forte che mi metto a urlare e bestemmiare. Pappetto mi tappa la bocca con la mano libera. Poi sento che dice a qualcuno di andare a tirare fuori la vodka dal freezer. Che cazzo ce vòi fa’ co’ la vodka, chiedo a Pappetto. E Lui mi risponde mo, mo vedi
Mo t’apro ‘shto cazzo d’occhio, fa Pappetto, e in effetti quello fa: un dolore che non le dico, Signor Del Debbio. Come se m’avessero dato un destro e una coltellata tutto insieme. Piano, Pappe’, porco de quer cristo, gli urlo in faccia. Poi lui, senza dirmi niente, mi svuota mezza boccia di vodka proprio dentro l’occhio, e allora mi brucia tutto, sento l’occhio che mi sta quasi per esplodere, il dolore mi si irradia per tutta la testa, comincio a tirare calci sperando di prendere in bocca Pappetto e quell’altro amico suo che non so chi sia, bestemmie a tutto spiano, urlo come posseduto dal diavolo, Pappetto ride, ma che cazzo te ridi, porco il tuo dio, Pappetto, gli dico, e sento pure le risatine di quello che non so chi sia; allora me dico no, da quello non me ce faccio prende per il culo. Riesco ad alzarmi, sferro ganci alla cieca, urlo DO’ CAZZO SHTAI, A ‘NFAME, sento una porta che si chiude e Pappetto che mi ride alle spalle. Mi fa: è una cosa che te fa ‘mbriaca’ più in fretta: te versi la vodka dentro l’occhi e te pia subbito bene; poi l’acol te disinfetta. A Pappe’, gli dico io, io t’ammazzo, si m’hai rovinato l’occhio t’ammazzo.
Mentre gli racconto la storia, vedo che ogni tanto il Signor Del Debbio si mette la mano sul cazzo e se lo accarezza due tre volte, è molto veloce; secondo me, pensa che io non me ne accorgo.
Quando finisco di raccontare per prendermi un attimo di pausa, gli guardo i boxer e vedo che ‘sto pezzo di merda sta col cazzo dritto. E mica fa niente per nasconderlo.
A Del De’, io me sa che me ne torno all’albergo, gli dico. No, no, ma quale albergo, fa lui, che ride e se ne rimane seduto con quel cazzetto dritto. Mi devi raccontare come finisce.
Io non lo so perché non gli ho dato un destro fatto bene. Avrò pensato alle conseguenze. Menare quel coglione di Del Debbio mi sarebbe costato. Per una volta in vita mia ho ragionato.
Allora, questa storia dell’occhio? Del Debbio si mette una mano sotto i boxer e comincia a farsi una sega. Mi guarda fisso. Abbiamo superato il limite. ‘Shto frocio demmerda de Der Debbio, penso. Che faccio? Continuo a raccontargli la storia. Ma si me mette ‘na mano addosso…
Insomma, un po’ ubriaco mi sono sentito. Ma l’occhio pulsava. Porca mignotta, pareva un cuore. Bum-bum-bum. Sbiascicando le parole dicevo: mo m’esplode, mo m’esplode, porca la madonna de quell’inglese demmerda. Pappetto non risponde. Che ci hai, Pappe’, dico io. Pappetto tossisce, ma mica risponde. Ao numme fa’ incazza’, Pappe’: che c’è? Brasi’, risponde Pappetto, tocca portàtte all’ospedale: sei troppo gonfio, la pelle te se sta a spacca’, è tutta viola e blu, quer poco d’occhio che te se vede è rosso de sangue. Mannaggia er tuo dio, dico a Pappetto. All’ospedale non ce vojo anna’. Ho menato a un pischello. E allora che famo?, mi chiede Pappetto. Chiama l’amico tuo quello bravo, gli rispondo.
Dopo mezz’ora arriva uno alto due metri, magro come un palo, biondino. Si fa chiamare Bambù. Ci ha la madre infermiera. Appena mi vede, fa una faccio strana. Gli dico ao, che ci ho? Dimmelo subbito. Lui risponde Brasi’, se sta a infetta’. Allora io gli dico ‘mbè, tocca che fai quarcosa.
Bambù prepara una siringa di alcol etilico. Gli chiedo Bambù, sei sicuro de quello che stai a fa’, sì? Lui fa sì-sì con la testa. Quando mi appunta sta siringa caccio un bestemmione che non le dico, Signor Del Debbio. Sento tutto il liquido che mi brucia, pare che mi sta iniettando la lava dei vulcani.
Del Debbio si cala del tutto i boxer. Sta nella fase finale della sega, quella in cui tiri giù di forza e non aspetti altro che sborrare. Mi fa segno di raggiungerlo con la mano libera. Ci ha un cazzo che non saranno nemmanco dieci centimetri, penso. Che tocca fa’? Io me ne vado. Però si me ne vado se ‘ncazza. Si se ‘ncazza numme chiama più; me fa tera bruciata intorno. Porca madonna. Proprio er frocione me doveva capita’. Proprio mo. Mo che sto pe’ diventa’ quarcuno.
Mi avvicino a Del Debbio. Sta con gli occhi chiusi e si morde il labbro inferiore. Mi chiede di afferrargli il cazzetto e tirare più forte che posso. Mi chiede pure di indurire i muscoli del braccio e di continuare la storia. Oh, Brasile: fortissimo. Mi raccomando. Inspiro proprio a pieni polmoni. Gli afferro ‘sto cosetto viscido che puzza de ricotta andata a male. Intosto il braccio e gli continuo la sega. Poi riattacco il racconto.
Bambù, dopo la puntura, mi tiene il sacchetto di ghiaccio sull’occhio. Mi dice vedrai che domani sarà la metà. Dopodomani, la metà della metà. In una settimanella aritorni novo. A quell’epoca non facevo i video su YouTube ma andavo comunque in giro per locali e ogni sera me portavo a casa qualche zoccoletta di queste. Straniere, romane, cinquantenni, minorenni. Non mi fregava di un cazzo. Le facevo tirare un po’, poi scopavamo. La mattina le cacciavo di casa ma gli lasciavo il numero, perché potevano essere clienti.
A Bambù, gli dico, se l’occhio numme torna come novo, ammazzo a te, ammazzo a Pappetto e ammazzo pure a quer frocio che s’è nascosto in camera sua. Fabrizio, dice Bambù. Fabrizio, ridico io. Nun te conviene, mi fa Bambù, quello sta pieno de sòrdi. Dopo ‘sta cosa rimango un attimo a riflettere e –
Ecco. Del Debbio tira fuori due schizzett, poi tre quattro gocce di sborra gli colano sul cazzetto. Io faccio in tempo a levare la mano, lui geme come una troietta. Il cazzetto gli si rattrappisce immediatamente. Io mi alzo e esco dal camerino.
*
Sul treno per Roma, Del Debbio mi manda un messaggio su Whatsapp. Mi dice: fra due settimane stai di nuovo qua. Poi mi arriva subito una foto del cazzo. Il cazzetto con tutti i peli lunghi e grigi di Del Debbio. Mi viene da piangere. Giuro.
Oggi comincio la selezione dei ragazzetti che m’hanno mandato le foto. Devo scegliere quattro pischelli: due maschi e due femmine. Sono centinaia di foto. Mi faccio una storia Instagram sul treno per ringraziare tutti e avvisare che da ora in poi non c’è più bisogno di mandare foto, sto pieno, basta così, grazie a tutti, wuuuh…
Ovviamente me ne arrivano un’altra cinquantina. Ne spizzo qualcuna e ci sta una ragazzetta completamente nuda, con due tette gigantesce che non si sa come ma le stanno su che è una meraviglia. Magra magra, un po’ d’addominale accennato. Bionda, occhi verdognoli. Le scrivo in privato e la invito a casa mia per parlare a quattr’occhi. Il tempo di tornare a casa dalla stazione. E pure questa è andata.
Hai rotto er culo a tutti, pure a Der Debbio, mi fa Pappetto, al telefono. Sì…, gli rispondo. Che ci hai?, mi chiede lui. Niente, Pappe’, so’ stanco. Seh, fa lui, pe’ le pippe che te sei fatto. Eh…, faccio io. Ao, ma davero, c’è quarcosa che nun va?, insiste Pappetto. None: tutto ok.
Allo specchio di casa mi fisso l’occhio destro. È bianco e celeste. Di un celeste sbiadito. L’occhio morto. Però ci vedo. Ma per me è l’occhio morto. Mi ricordo ancora la telefonata che feci a Bambù dopo dieci giorni: Bambù, l’occhio mio è morto: ce vedo appannato e poi mo è celeste. Che cazzo vordì? Bambù se ne stava zitto, io ho alzato la voce, lui ha cominciato a tartagliare cose incomprensibili, poi s’è messo a piangere. M’hai rovinato l’occhio?, gli faccio. Numm’ammazza, te prego, Brasi’, fa lui. Nun t’ammazzo, mica vojo fini’ ar gabbio pe’ córpa de ‘n cojone come te.
Ammazza quanto ce rimasi male. Porca mignotta.
Mentre faccio colazione, altra foto del cazzo di Del Debbio. Subito dopo mi scrive: ti farebbero comodo duemila euro? Eccaallà, penso. Io er culo nu joo do. Poi mi scrive: ti voglio venire in faccia.
A mezzogiorno e mezza gli rispondo esattamente così: dopo la prossima puntata in cui mi ospiti e mi fai parlare un po’ di più dell’altra volta ne parliamo certo.
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