Leone di Ferro

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Stefano Sicignano – Polemichetta with #Sal(T)ò

Sabato 4 alla libreria Tomo si è tenuta la prima finale di Scenicchia una Sega #2 – Praticamente un Concorso. Tra memicchi, scherzoni di fake-autori e pazzeschi giochi. Vittoria assoluta di Stefano Sicignano (nella stupenda foto) con il racconto 100celle city rockers, e trionfo della Scenicchia campana rappresentata per l’occasione dal buon vecchio Gianluca Liguori. Ovviamente il tutto dedicato agli amici della Pecora Elettrica. Siamo tutti molto presi dai preparativi per non andare al Salone del Libro, pur tuttavia andandoci. Ci vediamo il 17 allo Sparwasser di Roma.

Oggi su Verde: Michele Frisia. Ha cominciato a scrivere nel 2004 racconti noir, si è dedicato anche a soggetti e sceneggiature di ogni genere, ma continua a preferire la narrativa. Oggi ci propone il suo Leone di Ferro, la storia di due fratelli molto diversi.

Ero venuto a sapere del problema dalle parti di Tallahassee. Avevo appoggiato l’equipaggiamento sul pianale del furgone ed ero sceso.
Para onde vais? aveva chiesto João.
La risposta era stata: Aeroporto di Miami.
Quando si dice Florida è quasi obbligatorio immaginare ville, bicchieri colorate e spiagge dense di turisti, magari anche una scalinata macchiata di sangue,  ma basta allontanarsi di poco dall’Atlantico e schivare le Everglades, per imbattersi nel territorio con la più alta densità di armi da fuoco del pianeta. Perché avessero bisogno di un italiano, laggiù, non lo sapevo e non lo avevo chiesto.
A Montego Bay, fuori dagli arrivi, mi aspettava un uomo con la pelle opaca, buia, e le spalle più larghe delle mie. Non mi capita spesso di vedere spalle così. In mano teneva un cartello di plastica: il cognome, scritto a pennarello, sarebbe stato uguale a quello di mia madre, e al mio, se fosse stato scritto giusto.
È ancora dentro? avevo chiesto al jamaicano che si grattava il collo col cartello.
Io sono Barry, aveva risposto. Fino a lunedì niente giudice. E se niente giudice, allora niente libertà.
E così ero andato a cercare un giudice.
In Jamaica quasi tutto ha un prezzo e io quel prezzo, qualunque fosse, lo potevo pagare. Il giudice entrò nella stazione di polizia, a Savanna-la-mar, e ne uscì poco dopo. Una firma, trecento dollari e io aspettavo con Barry che dormiva sull’auto, mentre i poliziotti entravano e uscivano e che buono l’odore del pollo cotto nei barili lungo la strada.
Non ti ho chiesto di farmi uscire, disse mio fratello quando me lo trovai davanti.
Mi ha avvertito mamma, mi limitai a dire e tanto bastò, come sempre, a chiudere la questione.
Osservavo mio fratello che andava raggiungendo l’auto: infradito scolorite e disassate rispetto alla bisettrice del piede; una canottiera dal colore inspiegabile, incapace di nascondere costole flottanti e scapole; il costume da bagno, col tema caraibico, copriva le ginocchia e poi la pelle dall’abbronzatura profonda, antica abbastanza da confondersi con lo sporco.
Cazzo guardi? disse. Ma ti sei visto? Giri per la Jamaica in camicia; sei ridicolo.
E io, senza rispondere, pensai che potevo imbarcarmi sul primo volo disponibile e tornare in Florida, dove mi aspettava un compito magari ingrato, magari rischioso, ma pagato, senza che mia madre potesse trovare un appiglio per assalirmi.

Il primo aereo parte domani.
Per questo sono rimasto nel bar sotto casa di mio fratello, o meglio fratellastro, e mentre cerco di rinfrescarmi con qualche alcolico a basso prezzo e ottengo il risultato di sudare sempre più, e la camicia si attacca al collo, osservo l’angolo di casa sua: ha costruito, illegalmente questo è certo, una baracca sopra la cucina del bar. Valuto che, da quell’altezza, si dovrebbe vedere il Mar dei Caraibi che io non sono ancora riuscito a toccare e poi noto Barry, a piedi nudi, che porta le sue fastidiose spalle verso la spiaggia.
Ehi, gli dico, dove vai?
E quello mi guarda in silenzio come a dire, che non lo sa, ma che se anche lo sapesse non sarebbero affari miei.
Allora vengo con te, gli dico, mentre lancio l’ultima occhiata verso la baracca sopra al tetto del bar.

La spiaggia è bianca. Come nelle pubblicità. C’è anche il cielo azzurro, le noci di cocco, le cannucce e tutto il resto. E Barry non parla molto. Sta, con la maglietta in mano, camminando verso un punto qualsiasi e io sospetto che la vita sia sempre stata, per lui, simile a quella camminata.
Si volta e mi guarda.
Tu vuoi bene tuo fratello? chiede con voce ferma, come stesse parlando a un gatto.
Certo, gli rispondo.
E già mi pento perché – e non che questo sia un problema – non sono sicuro di aver detto la verità e quando mento preferisco disporre di una narrativa precisa, di un punto di fuga verso cui tutto quello che sostengo possa convergere. Invece ho risposto d’istinto, secondo la banale logica famigliare.
Lui ha guai, guai grandi.
Caro Barry, gli dico, l’ho fatto uscire e nostra madre è tranquilla. Ho risolto, quindi adesso me ne torno da dove sono venuto.
Lui no a posto. Lui problema grosso. Lui processo.
E io penso: processo? In Jamaica? Del resto, se ci sono i giudici ci saranno anche i processi.
Non succederà niente, dico mentre due turiste nord-americane mi sorridono dalla battigia. Troppo alta la più giovane, diroccata l’altra.
Rischia molto capo, risponde Barry.
E quel “capo” mi dice che la questione è seria.

Non rischio niente, dice mio fratello dal balcone. Sta fumando una canna e guarda verso l’oceano. Io aspetto dietro un paletto di legno poroso, consumato dalla salsedine, che secondo lui dovrebbe funzionare come limite della proprietà.
Barry è un tipo apprensivo, continua, torna pure ai tuoi affari. E non voglio sapere quali siano.
Tua madre non me lo perdonerebbe mai.
Tua madre non si deve preoccupare, risponde.
Non è quello che mi ha detto il giudice.
E allora mio fratello, che tra parentesi ha anche un nome, mi guarda per un istante. Ha pensato: quale giudice? Gliel’ho letto addosso, scorreva la memoria con gli occhi, poi ha capito ed è tornato a fissare il mare.
Salvatore, gli dico, se finisci dentro per dodici anni, chi si occupa della mamma?
La cenere cade dal lembo della carta bruciata e lui non si volta.
Come te ne sei occupato tu, dice, quando ti sei arruolato? Come te ne sei occupato dal Bosforo? Dall’Iraq? Dalla Norvegia?
Oppure tu dalla Jamaica.
Salvatore lancia il mozzicone verso la strada e si volta di scatto.
Mamma verrà qui l’anno prossimo; sto sistemando una casa per lei, sul mare. Le farà bene l’aria salata.
Non verrà mai, la conosci.
Sei tu che non la conosci, risponde alzando la voce. L’idea è sua, e a me va bene. Anzi: mi darà una mano, a casa è sempre da sola, grazie al soldatino che gira il mondo…
Marinaio.
È la stessa cosa, risponde.
No, non lo è. E tu rischi dodici anni.
Si vedrà al processo, risponde. Poi afferra le cartine e svita il tappo di un vaso in vetro. Spinge il mento verso di me, è un invito, ma io lo liquido con un gesto: perché sto già immaginando come risolvere questo casino.

E l’avevo pensata giusta perché quella sera, dopo la prima udienza del processo, ho capito a quali rischi il futuro di mio fratello fosse esposto.
Fratellastro, a dire il vero, e poi nessuno di noi ha il cognome di suo padre. Chissà cos’avrà trovato quella donna in due uomini così diversi: uno entrava e usciva di galera, l’altro colonello dell’esercito. Poi: io arruolato in marina, solo per dispetto al mio. Salvatore una delusione per il suo: venticinque anni, in Italia, senza mai entrare in una caserma, in un commissariato, e poi ha fatto quello che tutti dicono e nessuno fa: aprire un bar sulla spiaggia.
Un disastro. Non il bar: il processo. La vittima si è presentata in sedia a rotelle, un collare ortopedico, lo sguardo perso nel vuoto e dicono che forse non camminerà più. Ha raccontato la sua versione e Salvatore ha dato in escandescenza. L’avvocato ha dovuto trattenerlo per la maglietta; la maglietta perché, in due, almeno quella, l’abbiamo convinto a indossarla. Unica nota positiva, in tutto questo: il giudice. Quello che avevo comprato appena arrivato, era un vecchio senza senso dell’umorismo. Questo era ben diverso nel suo completo viola chiaro, la gonna aderente, il seno pesante e attorno i capelli ricci. E gli occhi, come non ne vedevo da tempo, ipnotici, quasi persiani. Poi ha espulso mio fratello dall’aula e sono tornato alla realtà: non posso correre dietro al giudice che lo manderà in galera, perché ci andrà, quindi compongono un paio di numeri, allungo cinquanta dollari a Barry e mi faccio portare a Kingston.
È pericoloso là, dice.
E io gli indico la macchina. Quelle spalle dovrebbero tenere lontana la paura.
Come se fosse solo una questione di spalle…

La seconda udienza è stata più tranquilla, ma è finita peggio. Per questo Salvatore ha lasciato la cena a metà e si è andato a sedere, quasi nudo, sul lungomare.
Non finirai in galera, gli dico.
Rilassati ogni tanto marinaio, risponde, poi mi porge la sua canna accesa ma io gli mostro il palmo e lui continua.
Non ci andrò in galera.
Su questo siamo d’accordo, dico. Ma raccontami: cos’è successo veramente? In quell’aula non si capisce niente, gridano tutti.
È normale da queste parti. Ma fammi capire, tu pensi di farmi assolvere scopandoti il giudice?
Lo guardo e rido, ma è una risata forzata.
C’era bisogno di ridurlo in sedia a rotelle? chiedo.
Ha insultato nostra madre.
Fammi capire, ti ha detto figlio di puttana?
Lui annuisce e io rido.
L’hai spedito in rianimazione perché ti ha detto figlio di puttana?
È più complesso di così, e lui è stato più specifico. Però, grosso modo… sì.
Salvatore è pacifista, astemio, generoso. E se mai si fosse interessato alla politica, capirebbe di essere un socialista ma se tocchi le corde giuste picchia come un maniscalco.
In spiaggia nessuno scommetteva su italiano, aveva detto Barry. Nero era enorme, più grande anche di me, e cattivo. Tuo fratello sembrava bambino davanti a lui. Tutti hanno messo soldi su jamaicano. Tutti hanno perso.
I poliziotti sono amici suoi, continua Salvatore, e mi hanno arrestato apposta il venerdì, così sarei rimasto dentro per l’intero fine settimana, fino all’apertura del tribunale. Non ti ho ancora ringraziato.
Che ci trovi in questo posto?
Salvatore mi guarda senza rispondere. Mi guarda per sapere se sono serio.
Sono serio, gli dico.
Se non l’hai capito da solo, io non ti posso aiutare.
Mi viene una gran voglia di andarmene, di lasciarlo al suo destino già scritto, ma ho già assunto troppa gente, investito troppi soldi, e mia madre non mi perdonerebbe mai, se lo abbandonassi ora, per cui appoggio i gomiti sulle ginocchia e mi godo il fresco del mare.
Va bene, dice Salvatore dopo qualche istante, ora provo a spiegartelo. Però non mi interrompere.
E io resto immobile, per fargli capire che ho capito.

La storia di mio fratello, in breve: arrivato in Jamaica con soldi a sufficienza per aprire un piccolo bar. Zona: Negril, la più turistica. Raccolti con fatica, in Italia, ma persi subito: qualche investimento sbagliato e più di un truffatore.
Allora si era inventato come autista: pulmini per viaggiatori annoiati, da e verso le sedi di un turismo zoppicante; poi gestore, in proprio, di un pulmino turistico; e poi di molti mezzi e alla fine più soldi che all’inizio e il bar.
Era sbarcato in Jamaica spinto da un’intuizione, da quell’aggressività che Bob Marley e Peter Tosh usavano contro le ingiustizie, dalla promessa di un senso, della liberazione da modelli malvagi, lontano da Babilonia, da un passato senza futuro. Ma non aveva trovato quello che cercava, non sulle spiagge e non di certo a Negril, finché il suo pulmino l’aveva condotto sulle Blue Mountains, là dove i rastafariani più convinti e pacifici si erano ritirati e là dove lo avevano accolto.

Ed è là che voglio andare quando avrò sistemato nostra madre. Sono stanco di questa gentaglia che viene a chiederti il pizzo, persone senza anima, che…
Che offendono la mamma, gli dico ridendo e questo lo stempera.
Il discorso di Salvatore era stato intenso, non così coerente come l’ho riassunto, ma a quell’ora la ganja iniziava a farsi sentire.
Ed è là che andrò, conclude. Poi, come se si fosse appena svegliato, scuote la testa e mi guarda.
Perché dici che non andrò in galera? chiede.
Ho un piano di riserva, gli rispondo con un occhiolino. Se le cose si mettono male, ti porto via di qua.
Salvatore si alza.
Furente.
Lancia quello che resta della canna verso il mare e mi punta un dito in mezzo agli occhi.
Ma come ti permetti? Mi hai già condannato vero? Io sono quello incapace, di qualunque cosa, di prendersi cura di sua madre, di trovarsi un lavoro, sono quello che scappa in Jamaica con un sogno da ragazzino. Certo, non sono come te vero?, il buon marinaio, il patriota di ’sto cazzo. Che lavoro fai adesso?, dimmi, e la mamma lo sa? Hai il coraggio di guardarla negli occhi mentre glielo spieghi? Hai dato per scontato che mi condanneranno, vero?, ecco chi erano quei due oggi in aula, quelle facce da galera. Ma bravo, perché io sono un fallito e tu sei quello che risolve sempre tutto. E allora sai cosa ti dico? Vaffanculo Carlo, vattene affanculo.

Quando mio fratello mi chiama per nome, lui che dice fratello perfino ai nemici, allora la situazione è grave. E per grave io l’ho affrontata.
Perché oggi c’è l’ultima udienza del processo, iniziata in ritardo, la vittima si è sentita male, un collasso o qualcosa del genere, la situazione medica instabile ma dopo le arringhe si andrà comunque a sentenza. E dopo “vaffanculo” mio fratello ha detto un’altra cosa: che oggi terrà il discorso di chiusura, al posto dell’avvocato, che la situazione si è messa male per colpa di quell’incapace in giacca e cravatta, ma lui sa cosa fare, sa cosa dire.
Aspetto fuori dall’aula, il piano è cambiato: dopo la condanna attaccheremo la scorta verso la prigione. Dovrei aspettare fuori dall’aula, coi ragazzi di Kingston, nascosti dove Salvatore non li può vedere.
La camicia umida si incolla alla schiena. Un gruppo di bambine in uniforme, marrone chiaro, con le borse della scuola. Un anziano mescola il pudding in un bidone arrugginito, scaldato a bordo strada da un fuoco improvvisato.
Lascio l’equipaggiamento sul pianale dell’auto e scendo.
Weh u go?, chiede l’autista in patwah.
Da mio fratello, rispondo in italiano. So che quello non capirà, infatti scuote le spalle, ma non mi importa.

Il giudice ha un vestito verde smeraldo, una linea di trucco e la permanente. Picchietta la matita sul bancone mentre mio fratello, abbigliato meglio del solito, è in piedi davanti a lei.
Questa terra mi ha accolto e mi ha dato un senso, dice Salvatore, quando un senso non avevo.
Il giudice ascolta.
Le persone di quest’isola mi hanno insegnato ad affrontare la vita in un modo più retto, a ignorare le lusinghe di Babilonia, a giudicare il cuore degli altri.
Il giudice tocca la gomma della matita, solo per un istante; sembra interessata.
Ma alcuni degli abitanti di queste spiagge sono stati corrotti dai valori del denaro, dalle seduzioni di una società lontana e iniqua, e stanno portando in questa terra la lussuria che non le appartiene; vogliono sempre più denaro e, come i folli, hanno sete quando c’è acqua in abbondanza.
Il giudice si rizza sulla sedia. Ha sentito qualcosa che le interessa.
Quel giorno io stavo aiutando le persone della spiaggia, quelle che lavorano, che spendono sé stessi, per gli altri, mentre altri vorrebbero solo spendere soldi, alla ricerca di una vana felicità.
Salvatore è bravo: mentre parlava si è voltato verso quel jamaicano enorme, schiacciato nella sedia a rotelle, che sembra sempre non capire bene quello sente.
Dopo aver scaldato la sala, ora lo indica con la mano e alza il tono della voce.
Molte volte, molte volte quell’uomo è venuto al mio bar, mi ha chiesto da mangiare e gliene ho dato, perché era affamato. Mi ha chiesto da bere, era assetato, e l’ho sempre abbeverato. Perché la strada della vita è dissestata, e quando punti il dito, ricordati che anche tu sei giudicato.
Il magistrato ha teso la schiena, il vestito verde le calza sui fianchi e disegna una vita stretta e arcuata. Sorride e aspetta.
E nonostante il cibo e l’acqua che gli davo, lui mi chiedeva ogni giorno soldi. Li chiedeva con le minacce? Non è importante, perché l’ho sempre tenuto al suo posto e quei soldi non li ha mai avuti perché non li ha mai meritati. E tornava, con tono arrogante, ogni mattina, e i pomeriggi, finché quel giorno, quel giorno, ha sbagliato. Ha portato il nome di mia madre dentro Babilonia, e io ho dovuto fargli capire che non poteva prendere il nome di mia madre e accostarlo a Babilonia.
Il giudice ascolta rapito. Salvatore si è fermato; tutta l’aula è in attesa.
Guardate quell’uomo, continua, è quasi il doppio di me, ed è venuto nella mia casa a pretendere; mi pensava debole, indifeso, una facile preda, e ora, ora che le cose non sono andate come lui pensava, solo ora ricorre al giudice. Ma lo sappiamo tutti, e tutti lo sappiamo perché quelle parole riecheggiano ancora in quest’isola: non tuffarti nelle acque alte, se non sai nuotare!
Il giudice scoppia a ridere. L’avvocato dell’accusa si alza, protesta, cerca di protestare, ma il giudice batte col martello sul tavolo e ride e ripete: assolto, assolto, e batte il martello e punta il dito verso l’uomo sulla sedia a rotelle.
Alzati adesso, gli intima.
E quello ha lo sguardo avvilito del bimbo che non ha ricevuto per il compleanno i regali che si aspettava. Strappa il collare e si alza; lo butta in terra mentre esce dall’aula.

Me ne sono andato prima che Salvatore mi notasse. Ho cambiato il biglietto per Miami con uno per Roma e penso che la Jamaica possa essere un buon posto per nostra madre. Starà bene qui, con mio fratello.
E forse tre persone con lo stesso cognome potrebbero anche vivere nello stesso posto; ma qui, dove si può vincere una causa citando Bob Marley, non è il posto adatto per me. Ma lo è per Salvatore e sono contento che lui ci possa restare.
Ho dovuto pagare comunque i ragazzi di Kingston, ma almeno mi hanno portato all’aeroporto ed è qui, a Montego Bay, mentre aspettavo che aprisse il check-in, che ho visto Barry. In fondo alla sala, mi indicava, e dietro di lui è spuntato mio fratello.
Mi ha sorriso e si è avvicinato.
Grazie, ha detto toccandosi la maglietta.
Io ho scosso le spalle, larghe abbastanza da farsi da parte, quando serve. Ho scosso le spalle, come si usa da queste parti, e da allora non ne abbiamo più parlato.

Michele Frisia

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