Roberto Gerace, nasce nel 1991 a Sant’Agata Militello (ME) e non vive a Londra. Si laurea a Pisa con una tesi su Bianciardi e, dopo un anno sulle sue tracce a Milano, decide di tornare al Sud per ripercorrere le proprie. Fa parte della redazione della rivista letteraria Il Primo Amore. Una sua prosa lirica è apparsa su Nazione indiana, una sua poesia sul primo numero di Crack Rivista. A volte scrive di critica, ma poi se ne pente. Come i veri poeti, non ha la patente. Oggi esordisce su Verde con L’Italiano.
Squilla il telefono in bachelite del Commissario. Siccome aspettiamo una chiamata dallo Studio Oblique, ci fiondiamo in otto sull’apparecchio. Vince il Doc Mosca:
«Pronto, coworking Verde Rivista, how can I help you?»
All’altro capo, meraviglia delle meraviglie, è Greta Thunberg: “Œ Coglioni è finita la Pasquetta di merda? Avete fatto la differenziata?»
«La diff… La differenziale?»
«Æø non fare il furbo con me, porco, ti sfondo. La differenziata».
«Scu… Scusa è che il mio svedese è un po’ arrugginito. Ti passo il Commissario».
«Il Commiss…»
«Sì, aspe’…»
«Aspe’?!»
«Aspe’…»
«Œ occhio a non fare allusioni a questa condiz…»
«…tta. Volevo dire, aspetta».
«Ah».
«Eh, che pensavi, snowflake?»
«Smettila, non sei mio padre!»
«Siamo sicuri?»
Il basitissimo Mosca sente esplodere un pianto all’altro capo del telefono. Non sta più parlando con la giovane paladina nella lotta contro il cambiamento climatico, bensì con un’insicura ragazzina di sedici anni che ha tante, troppe responsabilità sulle spalle. Il nostro decide di affrontare la situazione da persona matura, forte dell’esperienza al call center help desk di Rai Tre: «SCUSI HA SBAGLIATO NUMERO!»
«Scusa sto un po’ edgy, per via degli haters… Ma io dico», comincia la Greta tra i singhiozzi, «Che importanza ha se fo tutto da me o se sono un burattino dei media? Non è più importante il messaggio che porto, non è più importante partecipare alla mia lotta?»
E Mosca: «Praticamente».
E il Commissario: «Ma infatti siamo talmente con te, cara, che Verde non la stampiamo dal 2013 per salvare gli alberi».
E Greta: «Frocio».
«Però stai ridendo, eddai che stai ridendo!»
«Tacci tua Commissa’, sei ‘na sagomæ».
«Senti però adesso attacca che aspettiamo una telefonata da Luccone, eh. Grazie».
L’illustrazione è di Sofia Mori.
Cari signori, gentili signore,
mi presento: sono un italiano. No, non un cittadino italiano, né uno che in Italia semplicemente ci abiti. Come di Pericle si sarebbe detto: quello è un greco; o di Annibale: ecco un punico; allo stesso modo io affermo di essere italiano. Capisco bene il vostro scetticismo e, anzi, mi sorprenderei se mi credeste subito. Non capita mai, in effetti. Tutte le sere il copione è lo stesso. Avete sempre quegli occhi lattei. Sento i vostri cuori che palpitano nel buio, come dentro un ventre pregno o un lago scuro. Siete sorpresi che io dica sul serio? Alcuni di voi si danno di gomito ironici, lo so, o schioccano le dita per chiamarsi da un tavolo all’altro; o fischiano. Altri non sanno se aspettare o ridere, perché lo spettacolo è appena all’inizio e non si sa ancora a quale genere appartenga: se sia una commedia romantica, un mimo o un’atellana; oppure una roba d’avanguardia che bisogna solo far finta di capire. Da qualcuno credo d’essere persino compatito: «guarda come ci si approfitta di un povero pazzo vestito da Super Mario pur di vendere un biglietto», è quello che pensa. Nessuno di voi, comunque, al momento è disposto a darmi credito.
Tutti quanti sappiamo com’è andata la faccenda. Da quanti secoli l’Italia è un albergo? Quando è stato visto l’ultimo italiano? Forse due, trecento anni fa. Si cominciò con la trovata del made in Italy. Certo, i più colti fra voi mi diranno, la cosa ebbe radici più lontane. Già nel Rinascimento si facevano miracoli nell’export, per esempio nel settore delle buone maniere: non dimentichiamo che senza di noi, intendo dire senza gli italiani antichi, stasera stareste mangiando con le mani come scimmie. In fondo è tutta qui la cultura, che anche nei suoi esiti sublimi non è altro che una forma di igiene dello spirito: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te; e prima di bere pulisciti col tovagliolo. Insomma, si inventò questa storia dello stile di vita italiano, un’idea che oggi fa un po’ ridere perché chi non ha uno stile di vita italiano? Siamo seri: guardate gli abiti che avete indosso! Sentite il sapore del vostro piatto di bucatini! Quello che oggi chiamiamo la cucina e la moda una volta era tutto italiano. È così che si fa quando una cosa appresa dagli altri diventa un’abitudine: pensiamo che sia innata. È accaduto insomma il celebre processo d’indifferenziazione di cui parlano gli storici, su cui innumerevoli poeti nostalgici come Pier Mario Cipollini hanno potuto scrivere elegie: gli italiani diventarono a poco a poco un popolo di affittacamere. Quando la crisi economica ebbe finito di falcidiare il loro PIL pro capite si accorsero di avere ancora dei patrimoni. Così, visto che il turismo era l’unico settore che rimaneva sempre in crescita, per sopravvivere venne loro naturale affittare le case nei centri storici, spostandosi in periferia; poi di affittare anche le case in periferia per andare in provincia; infine di vendere in provincia per spostarsi all’estero. Ricordate il titolo di quel film? Da Venezia a Mestre, da Treviso a Bristol. Il risultato è che oggi nel mondo tutti mangiano italiano, bevono italiano, vestono italiano… insomma sembrano italiani, ma nessuno lo è davvero. Anche i discendenti di quelli che allora emigrarono hanno dimenticato del tutto le loro origini.
Dunque a maggior ragione mi direte: come puoi dirti italiano? Non ci si può definire così più di quanto non si possa andare in giro con la clamide e i coturni, sostenendo di essere Telemaco o, che so, il cugino di Superman. Anch’io me lo sono chiesto per molto tempo, se può consolarvi. Eppure è una verità che è venuta fuori in maniera incontrovertibile con gli anni, man mano che crescevo e scoprivo sulla mia pelle l’esperienza d’essere diverso. Non che la cosa mi spiaccia, a dire il vero. È solo che sono così, mi sono rassegnato e basta. Ma devo ammettere che all’inizio è stato difficile. I miei genitori furono i primi a starci male. Potete immaginare la loro reazione quando si accorsero che vomitavo quando mi mettevano davanti pasta e ketchup.
«Sono solo spaghetti, caro», diceva la mamma; e faceva una faccia da scema. “Sono buono. Perché non li mangi?»
Io stavo zitto, mi chiudevo.
«Buono spaghetti, buono!», insisteva. Provava a imboccarmi, ma io le vomitavo in mano. Se ritentava, magari facendo il solito gioco dell’aeroplanino («vrum!», diceva, «vrum!»; non so perché quell’aeroplano facesse il verso di un’automobile ogni volta), mulinandomi la forchetta davanti agli occhi, allora io non potevo fare a meno di vedere quella macchia rossa e… Mamma mia! Povero me! Il mio vomito investiva furiosamente ogni cosa intorno, descrivendo nell’aria spirali e parabole, come una sistola impazzita nel guazzo dell’orto. A volte mi piegavo in preda al dolore gastrico e quando venivo colto dagli spasmi mi vomitavo addosso, spesso sui pantaloni che, ricordo, per questa ragione andavano smacchiati di continuo – ed era un ulteriore motivo di lamentela, tant’è che alla fine, esasperati, per punizione iniziarono a lasciarmeli sudici; ricordo ancora quell’odore insopportabile che mi portavo dietro costantemente… E la sensazione di umido sulle cosce che mi rimaneva sempre, anche quando mi cambiavo.
«Che cosa c’è che non va?», mi chiedeva esausta, alla fine di tutti questi esperimenti. Io avevo il volto rigato dalle lacrime e un rivolo di vomito mi scorreva giù giù dalle labbra fino al collo.
«Il ketchup!»
Ora, noi sappiamo che all’ora di pranzo non c’è niente di più comune che riempirsi lo stomaco con un bel piatto di pasta e ketchup. Dà energia per affrontare la seconda parte della giornata, è buono (lo so che è buono, razionalmente lo capisco); fra i suoi pregi metterei pure che è colorato. Eppure io provo nausea, non per la pasta in sé, che invece mangio con appetito, né per il ketchup, che per esempio messo sulle patatine non mi dispiace affatto. Non si tratta di intolleranza alimentare, perché è proprio l’accoppiata che non reggo. Mi direte: e che c’entra con l’essere italiani? Aspettate, ci arrivo. Passò del tempo e crebbi, non senza complessi e umiliazioni. Quante ore passate da solo nella mia stanzetta, chiuso a chiave nel tentativo disperato di correggermi! Esperienze analoghe a quella che vi ho raccontato diventarono una regola. Per esempio, quando mi fecero assaggiare la mia prima tazza di caffè, non so da dove mi venne ma giuro che, dopo averne sputato il contenuto e aver tossito fino a soffocare, divenni preda di un delirio che sulle prime parve inarrestabile (alla fine durò tre giorni), in cui non feci che ripetere, lo sguardo vacuo e il tono robotico, queste due parole: «acqua sporca». Un’altra volta mi fu diagnosticata persino la sindrome di La Tourette, perché ho una certa tendenza (avrete notato) a gesticolare in continuazione, anche se con un certo criterio. Per esempio, quando non capisco quel che mi si dice, ho questa abitudine di riunire le dita a cipolla e farle oscillare avanti e indietro rivolto al mio interlocutore, facendo perno sul polso. Così, vedete? Mi viene d’istinto, è una specie di automatismo.
Voi starete pensando che io mi sia limitato a mettere insieme un’accozzaglia di stranezze, che forse sono soltanto un individuo malato gravemente. Ed è qui che interviene il dottor Rebbebbi-Richardson, che invito a salire sul palco. Venga, dottore, non sia timido! Avanti, su! Un applauso per il dottor Rebbebbi-Richardson! Come vedete, il nostro staff sta facendo girare tra i tavoli un fascicolo… Sì, signora, arriverà anche a lei, abbia pazienza… Un fascicolo che, come vedrete, è pieno di indici… Sì, proprio quelli! Bravo! Mi raccomando, non sporcateli di senape. Si tratta di analisi del DNA. Il mio DNA, per la precisione, messo a confronto con quello di un’altra persona che ora sveleremo. Credevate davvero che, dopo tutto quello che vi ho raccontato dei miei primi anni, non avessi mai consultato un medico? Eccolo, il mio medico! Si faccia stringere, dottore! Non la mangio mica… Sono solo un po’ espansivo… Ecco, bravo. Il dottore sarà lieto di spiegarvi tutti i dettagli tecnici quando sarà il suo turno. Quello che io posso dirvi è che quest’uomo, Dio gliene renda merito!, mi ha cambiato la vita. Quando andai da lui per la prima volta e gli spiegai i miei sintomi, lui mi disse subito: «Lei è un italiano!» Mi mostrò certi vecchi film del 1900: quelli di Totò, Un americano a Roma con Alberto Sordi, Un medico in famiglia con Lino Banfi e Milena Vukotic… A voi questi nomi diranno poco o nulla. Io invece mi riconobbi: ero uno di loro. Fu allora che mi misi a studiare la storia di questo popolo perduto. Sapete che sulla pasta mettevano un sugo di pomodoro cotto in padella? Che bevevano il caffè in tazzine piccolissime? Che facevano tutti quei gesti per intendersi? Come questo… Sapete che cosa significa? Chi lo sa? Nessuno? No, non sono due pistole, significa “ti faccio un culo così!” E, più allargo le mani, più idealmente dilato l’ano. Vedete?
Sì, vi starete chiedendo, ma tu chi sei? È arrivato finalmente il momento di rispondervi. C’era una volta un poeta italiano che, presentendo la fine imminente della sua cultura, decise di ibernare il figlio. Era il tre maggio 2054. Guardate sul fascicolo: all’ultima pagina ci sono le foto che scattarono al piccolo prima che fosse dato alla cella criogenica… E accanto ci sono io all’età di dieci mesi. Fate voi il confronto. Quel poeta era mio padre. Il suo nome era Pier Mario Cipollini. Io mi chiamavo invece Piermaria.
Basta, mi taccio. Lascio finalmente la parola al dottor Rebbebbi-Richardson. Non dimenticate di fare la vostra offerta per finanziare il primo asilo per italiani purosangue di San Donà di Piave. Passerà il nostro staff con il cestino per gli spicci. Tenteremo di coltivare dei nuovi cloni a partire dai resti delle tombe storiche. Il mio lavoro sarà quello di educatore. Ora, scusate, ma vado a mangiarmi una bella pizza alla maionese!