Gino

ce n’era che scoppiavano

Claudia D’Angelo – Ce n’era che scoppiavano

Tempo fa, con grande disappunto di Ramses, i redattori di Verde pubblicarono alcuni loro racconti su Crapula: Quaranta con Peccato, Marinelli con Signor Pacciani e Frau con L’ultimo uomo. Al fu commissario dissero: “ALT. Sarà uno scambio, una cosa reciproca tipo vacanza studio, gli amici Crapuli saranno ospiti da noi”. Il commissario acconsentì, sebbene un po’ riluttante. Dopo cinque mesi le loro certezze cominciarono a vacillare ma si dicevano: “sappiamo i tempi di Crapula, il loro Politburo è affetto da un burocratismo ciarliero, eterne discussioni, democratismi gotico mediterranei infiniti, mozioni, contro-mozioni, continui rinvii. Ma amici, cosa preferite? Il decisionismo rozzo e autocratico? Sono i tempi della democrazia, baby. Ora per esempio hanno deciso che Dalle rovine di Funetta, in fin dei conti, è un libretto interessante. Ci sta, ognuno ha i suoi tempi”. La fronda anti Guru di Zucchi e Zando (Doppia Z- contro l’orgia del potere) ci consegnò questo estratto dall’antologia Anatomè, come acconto simbolico, giusto il tanto per far calmare il commissario. Ed ecco che un bel giorno, finalmente, (dieci mesi dopo!) lo scambio avvenne, il Politburo crapuliano decise: LO SCAMBIO S’HA DA FARE! Quel giorno è oggi: 18 marzo 2019 ma per crapula è il 18 marzo 1991, l’anno in cui Rino Formica, riferendosi ai cortigiani craxiani invitati al congresso del P.S.I., pronunciò la celebre locuzione: “nani e ballerine“.
Siamo molto felici quindi di ospitare su Verde il racconto di una delle tre NorneSara Mazzini, intitolato Gino. L’autrice è membro della Brontë Society di Haworth. Ha studiato correzione di bozze presso Oblique Studio. Scrive di letteratura, psicologia e controculture. Vive senza fissa dimora ed è co-direttrice di Crapula.
Sara Mazzini, tra le tante cose è anche autrice di Centinaia di inverni. La vita e le morti di Emily Brontë per Jo March.
La prossima settimana sarà con noi Luca Mignola; la prossima ancora, il guru De Vivo (dobbiamo trovare ancora il coraggio di chiederglielo, in verità)! Come al solito il maverick Zucchi ha precorso i tempi, ma non perché ci stima, solo per far torto al Guru. Pensate a Zucchi come un Riccardo Lombardi e a De Vivo come un Craxi. Noi invece siamo Soros e finanziamo le opposizioni nella lit web tutta, perciò, forza ragazzi, adelante e senza juicio!
Viva Verde, Viva Crapula!

Edit: Ci giungono voci affatto confortanti sullo stato di salute di Ramses. Humanitas ha avuto gli esiti tossicologici degli accertamenti richiesti e lo ha prontamente comunicato agli inquirenti. Per rispetto della privacy e dell’indagine in corso, Humanitas non rilascerà ulteriori commenti su nessun aspetto di questa vicenda. Il Tascabile ha scritto che gli esami avrebbero rivelato un «mix di sostanze radioattive», ma la notizia non è stata confermata da fonti ufficiali. La procura di Milano, che si sta occupando dell’indagine con il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, non ha chiarito quale sia stato l’esito degli esami tossicologici richiesti dall’Humanitas e realizzati da un centro specializzato di Pavia. Ramses sta scrivendo un libro sulla sua esperienza nel mondo delle scenicchie e della lit web: la procura avrebbe ottenuto una copia del libro e lo starebbe esaminando. Stamattina all’alba gli inquirenti hanno perquisito la redazione di Verde a Pesaro e quando ci hanno chiesto: “Il D’Antuono ha mica nemici?” Siamo scoppiati a ridere indicando la catasta di lettere di minacce. Sorveglieremo sulla tenuta democratica di Verde; è in queste situazioni che bisogna stare uniti e guardarsi dagli attacchi di Guacamole, troll e Insel. Seriamente: forza Ramses, forza Verde! Vi terremo aggiornati.
Intanto partecipate e condividete il nostro concorso.
Ci aspettano tempi 🅱alordi!

L’illustrazione è di Claudia D’Angelo.

Vorrei che vi raccoglieste attorno a me e partecipaste al mio dolore, perché il mio amico Gino è morto. Gino era un camionista e viveva lungo l’Autosole. Ci viveva insieme a Rita, che era il suo più grande amore. Gino era originario di Ponsacco, ma si era stabilito insieme a Rita all’autogrill di Cantagallo. Rita è il nome del suo camion. Gino diceva che i camion sono come le donne: per questo lasciava sempre in giro sul cruscotto latte piene di fagioli, nella speranza che quelli si scaldassero da soli. Ma i fagioli non si scaldavano mai e Gino finiva a imprecare contro il lassismo di Rita scofanandosi un Camogli. Lo accompagnava con tre dita di grappa Sturoduro, che per le sue budella, diceva, era come una benedizione.
Perché Gino aveva la cirrosi e quando, in seguito a un collasso, la guarda medica accorsa da Sasso Marconi gli aveva intimato di chiudere con l’alcol, per Gino la vita era finita. Ma poi aveva scoperto la grappa Sturoduro. La producevano dei frati in un convento di Pontremoli, e a detta di Gino quei frati non facevano nient’altro che pregare e distillare grappa, tutto il giorno e anche la notte. Diceva, Gino, che con la grappa riempivano le acquasantiere e che ci battezzavano i bambini. Essendo benedetta, diceva, non poteva fargli male.
Ma Gino in quel convento non c’era mai stato. Non aveva mai lasciato l’Autosole. Aveva dato al suo camion un nome di donna e non lo lasciava uscire dal parcheggio dell’area di servizio. Come ogni uomo che ami troppo una donna, Gino teneva Rita imprigionata nel suo cuore.
A modo suo il mio amico Gino era un romantico. A volte ci sedevamo insieme sul guard rail per osservare il sole tramontare oltre le schiene fluorescenti degli operai dell’Anas che riempivano i sacchi di sale in previsione di una nevicata. Se chiudevo gli occhi per concentrarmi sul suono dei veicoli in corsa, mi sembrava di sentire il mare.
L’Autostrada del Sole spacca l’Italia in due. Cattolici e laici, emigranti e immigrati, governo e opposizione, bosco e riviera, eccetera ed eccetera: ogni aspetto della vita in questo posto si fonda su una dicotomia. L’Autostrada del Sole si chiama così perché da nord arriva a sud: «dai terroni, che per ovviare alla mancanza di ingegno e alla miseria continuano a menarla col sole e col mare», ha detto una volta un mio conoscente leghista. Ma Gino preferiva rievocare Carlo V sentenziante: «sul mio impero non tramonta mai il sole».

Il giorno prima di morire Gino ha insistito affinché mi trattenessi per la cena. Mi ha offerto una lasagna e un caffè nel ristorante sospeso sull’autostrada. Sotto di noi le luci delle auto sfilavano veloci in un abbaglio rosso e giallo nelle corsie di nord e sud. Gino non staccava gli occhi dalla carreggiata e cercava la sua Rita, ora lontana. Non poteva fare a meno di tenere sotto controllo il suo mondo: l’asfalto giallo, il cielo nero, i cartelloni pubblicitari abbacinati dai lampioni, la processione dei bus polacchi in sosta solo per pisciare, i fari delle auto fendenti l’umidità untuosa, quei loro retro che di notte rimandano espressioni quasi umane. Lassù, nell’estrema solitudine che solo i luoghi affollati sanno ricreare, gli ho chiesto perché, avendo scelto quel genere di vita, non fosse mai uscito in strada insieme a Rita. Lui ha annegato con la grappa il fondo del caffè e mi ha narrato del giorno in cui il corriere della Ruotolo Carri lo ha incontrato a Cantagallo per consegnargli il rimorchio e un contratto da firmare.

Si era in febbraio, uno di quei giorni impietosi in cui ogni parola sfuggita dalle labbra rimane impressa nell’aria, imprigionata in una nuvoletta. Gino aveva trascorso gli ultimi mesi a produrre documenti e a sostenere gli esami per la licenza. Aveva impegnato i suoi pochi averi per comprare la motrice e addobbarla con tutte le cazzate del caso: calendari ritraenti donne nude, rosari appesi allo specchietto, vecchie istantanee di Ponsacco. Si era procurato perfino uno di quei quadranti luminosi da attaccare al parabrezza, a formare il nome Gino con tante lampadine. Quando il corriere si era presentato, col suo rimorchio scarlatto, il logo della Ruotolo impresso lungo la fiancata e il faccione di Obi-Wan Kenobi a benedire gli altri autisti dal fondo del cassone, gli era parso di vivere in un sogno. Aveva un camion; un camion tutto per sé. Sapeva che lo avrebbe sempre preferito a una donna e a una famiglia, e fu per questo che decise di chiamarlo Rita. Con l’aiuto dei ragazzi della cooperativa il rimorchio fu attaccato alla motrice e ogni dettaglio concordato davanti a una tazza di tè. Era la prima volta che Gino utilizzava il suo fornello da campeggio e indossava le pantofole da viaggio. Nell’atmosfera intima e gioiosa che si era venuta a creare il corriere si era sentito libero di modellare nuvolette a piacimento ed era finito col farsi sfuggire qualcosa riguardo al futuro del loro comune mestiere, che l’arrivo di nessuna primavera avrebbe mai potuto cancellare. Quello che aveva detto suonava come: «Peccato che un giorno noi non serviremo più».
Pensava forse di stare rimarcando una verità nota, ma Gino lo aveva fermato prima che il flusso dei pensieri potesse condurlo lontano, pregandolo di esplicitarlo.
A quel punto il corriere aveva aggiunto: «Serviranno solamente persone capaci di azionare un ingranaggio. I camion si guideranno da soli e noi saremo belli che inutili, come gli odontotecnici».
«Si può capire», aveva ribattuto Gino, «quanto tempo ci vorrà per arrivare a questo».
Ma il corriere lo aveva ammonito, con una costruzione tipica delle periferie del fiorentino: «Bada di non t’ingannare». Si stava già lavorando in segreto a un progetto di automatizzazione dei trasporti che «un bel giorno, quando meno te l’aspetti, ci lascerà tutti seduti nell’ombra di qualche magazzino, a pigiare dei pulsanti». Nel migliore degli scenari.
«D’altronde», aveva aggiunto, «l’interesse delle grandi aziende è quello di spostare le merci, mica le persone».
Congedatosi da lui, in seguito alla ricezione di un po’ di merchandise (magliette di taglia XXL, accappatoi in microfibra, cestini per il pranzo: il tutto con il marchio della Ruotolo Carri in bella mostra di sé stesso), Gino si era ritrovato in preda allo sconforto. Guardava alla sua Rita; conquistata, come ogni donna che si rispetti, con largo sfoggio di cultura e gran dispendio di quattrini; messa insieme a suon di compromessi e di sudore e non senza qualche piccolo incidente; che era finalmente sua, bellissima, elegantissima, con quel valore aggiunto di essere già stata rodata in precedenza e avere assunto un’aria esperta ma discreta; e pensava che un giorno qualcuno sarebbe venuto a portargliela via. Qualcuno di più giovane e moderno, che non aveva un cuore ma una multinazionale, e che mirava a darle un nuovo aspetto per piazzarla in solitudine lungo le strade amare, come si fa con le puttane. Era un pensiero troppo atroce perché Gino lo potesse sopportare.
Così, invece di partire alla volta di C., dove era atteso per il mattino seguente, aveva trascorso la notte nell’area di sosta, nel grande ventre di Rita, riflettendo su come salvarla dal triste destino a cui sarebbe andata incontro se solo lui l’avesse messa in moto. Il mattino seguente era stato svegliato da un gran tramestio. Sul piazzale la gente correva, gridava, veniva fatta sgombrare. Elicotteri della polizia si aggiravano inquieti nel cielo di Sasso Marconi. Le grida si passavano sconnesse la notizia che un kamikaze si era barricato dentro l’edificio, minacciando di farsi esplodere con tutto l’autogrill. Lo stesso Gino fu invitato a evacuare, ma riuscì ad approfittare della confusione generale per nascondersi nei bagni delle donne, con la complicità dell’Adelina (la guardiana dei cessi, con cui in seguito avrebbe avuto una relazione clandestina). Giunsero le autorità, e dopo svariate ore di contrattazione il capo della Squadra Mobile riuscì ad avvicinare l’attentatore. Saltò fuori che non era un kamikaze, bensì un camionista di Biella che si era presentato nei locali dell’area di sosta nascondendo al di sotto del giubbotto il cuscino che usava per dormire e lasciando spuntare oltre l’orlo il cavo del caricabatterie del cellulare: ecco come era riuscito a simulare la presenza di un ordigno. A fronte dell’accorato interesse di quello che credeva un giornalista il tizio scoppiò in lacrime, confessando anche il suo numero di scarpe. Massacrato dai turni di trenta ore e dal recente divorzio dalla moglie, il povero cristo era arrivato con l’intento di farsi ammazzare. Si riuscì a riconciliarlo con la vita conducendolo in centrale per un interrogatorio: un’idea che non dovette suonargli troppo male. In fondo aveva solo bisogno di parlare con qualcuno.
La vicenda si spalmò in fretta su tutti i giornali. Fu una storia molto forte e toccante e quei giorni si fece un gran parlare a proposito dello sfruttamento inflitto dalle ditte di trasporti ai propri dipendenti. Così, quando Gino scrisse alla Ruotolo Carri inventandosi di avere distrutto il rimorchio e tutto il suo contenuto in seguito a un colpo di sonno, allegando un assegno ammontante a tutti i suoi averi come risarcimento e una fulminea lettera di dimissioni, nessuno ebbe niente da obiettare. Si presero i suoi soldi e se li fecero bastare.
Da quel giorno Gino visse a Cantagallo, insieme alla sua Rita, il cui rimorchio è stato ridipinto in una tonalità pervinca a nascondere il logo della ditta che minaccia periodicamente di saltare ancora fuori e il cui contenuto (un carico di legname) si è andato progressivamente alleggerendo grazie al suo nuovo hobby, ovvero intagliare le pedine degli scacchi.

Alla fine del racconto siamo usciti nuovamente sul piazzale, l’unica zona buia di un impero di luci perpetue. Gino mi ha accompagnato fino alla mia Sisma, ha fatto un cenno al posteggiatore abusivo liberandolo dall’obbligo di sorvegliare l’auto e il suo contenuto e poi mi ha regalato un compact-disc, una raccolta di canti popolari bulgari che il suo amico Dragomir gli aveva lasciato con l’ultimo carico di sigarette sottocosto. A quanto pare Gino aveva una collezione di tabacco, nel rimorchio di Rita, da fare invidia allo stesso autogrill che lo ospitava.
«Da quando hai iniziato a fumare?», gli ho chiesto.
«Non l’ho mai fatto. Mi accontento del vizio del bere», ha risposto.
«E cosa te ne fai di tutte queste sigarette?»
Mi ha detto che non lo sapeva. «In fondo è un bell’affare, no? Qui in Italia costano molto di più».
Col disco, invece, non voleva avere nulla a che spartire. Lo infastidiva non riuscire a capire le parole. Aveva chiesto a Dragomir il significato della prima canzone e quello si era limitato a trascrivergli il testo in bulgaro sul retro di una distinta. Questo aveva fatto infuriare Gino, che aveva preteso di conoscerne la traduzione, ma l’altro insisteva che era impossibile fornirne una, che la canzone non aveva un senso. Se solo il testo non fosse stato scritto in caratteri cirillici Gino avrebbe potuto copiarlo nella finestra del traduttore di Google. Alla fine era stato lo stesso Dragomir a scrivergli di nuovo il testo sul laptop e a mostrargli la traduzione in italiano. Ne era uscita una poltiglia di parole che mescolava immagini vagamente poetiche ad altre allegoriche, o forse solo a scherzi del traduttore di Google, ma da cui si poteva intuire che doveva trattarsi di un inno alla primavera, intessuto di usignoli appena nati, giovani spose vestite di fresco e ramoscelli di lillà che richiamano l’odore del “mio cazzo”.
L’ho messo su, quel disco, mentre i fari della Sisma rilucevano sui sacchi del sale fissati ai guard rail e i batuffoli di nebbia si schiantavano sul mio parabrezza tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello. Nonostante la semantica pagana, il brano era intonato da un coro femminile che nel mio cervello si riagganciava a lunghe tradizioni di canti religiosi, motivo per cui ho interrotto la riproduzione dopo un paio di minuti. Le interferenze che alternano Virgin Radio a Radio Maria, in una sorta di grottesco equivoco dottrinale, non avevano niente di meglio da offrirmi; ma ognuno dei due aspetti sotto cui quella traccia si poteva presentare mi suonavano del tutto fuori luogo. Mai come adesso, sia Dio che la primavera mi sono sembrati tanto lontani.

Sara Mazzini

6 thoughts on “Gino

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