Buongiorno! Scusate il ritardo ma la tirocinante è uscita con Quara e Ramses due giorni fa e nessuno di loro è ancora tornato. Inutile dire che, per quanto ci riguarda, anche questa tirocinante è andata. Cerchiamo stagisti e tirocinanti per scrivere le presentazioni ai racconti, è richiesta la conoscenza wordpress, nessuna famiglia a carico, parente o amico apprensivo e una certa attitudine alla polemichetta, scriveteci a verderivista@gmail.com. Oggi, con un giorno di ritardo, ci scusiamo con i lettori ma soprattutto con l’autrice, pubblichiamo Hero, un racconto di Giovanna Daddi. L’autrice è nata a Firenze nel ’77. Da alcuni anni scrive racconti, quasi tutti per la rivista Sguardindiretti; nel 2016 un suo racconto è stato pubblicato da Edizioni Clichy per Lungarno. Collabora alla redazione del blog Il Mondo o Niente ed è autrice della rubrica “Csanacs and the City” sul blog Smackonline.
L’illustrazione è del pazzesco Paolo Massagli che ringraziamo infinitamente.
Mi chiamo Ludo. O meglio, mi chiamo Ludovico, questo è il nome che mi hanno dato i miei quando sono nato. Ma nessuno lo pronuncia per intero, neppure loro che me lo hanno dato. E così sono Ludo, dal primo giorno in cui i miei occhi si sono aperti sul mondo e ho iniziato a piangere forte per cercare aria, dopo tutta quell’acqua, così protettiva e silenziosa.
Dopo anni alla ricerca di qualcosa che non sapevo e non ho mai saputo, ho preso il mio nome storpiato, le mie scarse ambizioni e sono arrivato qua in città.
Mi trovo qui da pochi anni e ho capito che non è poi così diverso da quella periferia di semi-campagna invasa dall’industria che ho lasciato. Anche qui io non ho un posto. E faccio strani sogni.
L’unico lavoro che ho trovato è il cameriere in un fast-food, difficile per me dire di no, senza soldi in tasca né garanzie di ritorno. Così ho fatto l’abitudine all’odore di fritto e di salsa barbeque, non guardo neanche più in faccia chi mi lascia la mancia. Pensano di farmi un piacere ma forse procrastinano soltanto l’agonia del mio restare, fermo immobile, a guardare il mondo crollare.
Ogni sera rincaso tardi, i miei coinquilini, ignari della fine imminente, studiano per un altro esame, scopano con chi capita, bevono, fumano, alcuni dissertano più o meno inutilmente sul sesso degli angeli e la politica del nuovo millennio, non mi vedono, forse dubitano che io davvero esista. Non so i loro tempi, non guardo le cose con i loro occhi, non riesco a sintonizzarmi con le loro pazzie, così lontane dalla mia. Loro non mi salutano, non mangiano con me nella stessa stanza. Temo siano perduti, e io perduto per loro. Condividiamo l’aria e lo spazio, ma non trapassiamo le stesse molecole e persino il pavimento sembra cambiare colore al mio passaggio.
Non conoscono l’abisso del mio sapere: unico al mondo, solo nella città, io ho visto qualcosa, ho visto come andranno le cose. Ma è stato un sogno e nessuno mi crederebbe. Ho visto tentacoli di squame verdi sommergere i centri commerciali, gli stadi, i locali, le auto in quarta fila, ho visto la paura bucare gli occhi dei bambini e la pazzia infiltrarsi nelle menti dei loro padri. Ho visto la Regina delle squame venire, tristemente consapevole che ormai, per il mondo nostro, nulla più poteva essere fatto.
Non ci siamo saputi salvare, non abbiamo fatto i compiti, non abbiamo guardato oltre le lavatrici, le colazioni, le cenette e i concerti, oltre il sangue e oltre la carne, non abbiamo capito il pensiero, non abbiamo valutato il rischio. Siamo andati di buon grado verso l’apocalisse. E la Signora Regina da lassù ci sta a guardare da molto tempo.
Lo so, perché ho fatto un sogno. E ho capito di essere l’unico che vede in un mondo di ciechi. E la Signora ha cercato di parlarmi, anche lei mi ha chiamato “Ludo” e mi ha detto che dovevo fare qualcosa se non volevo che lei tornasse, di nascosto, non come decadi fa, e non sarà come uno Starman, sarà come uno spaventoso specchio in cui vedremo il nostro non sapere, ritratto nella sua vera forma. La terrà imploderà, e nessuno farà in tempo a salvare su disco.
Come faccio a dirlo agli altri? Che cosa sono io? Un giovane cameriere emaciato, indigeno a metà, che avanza come uno spettro. Chi mi ascolta, se neppure la mia coscienza mi parla ormai?
Il sogno è tutto, e la Signora lo sa.
Un’altra serata da passare. Un miscuglio di odori, la fame che non ho. Devo riuscire ad addormentarmi e sognare, così potrò conoscere la fine della storia, potrò forse capire cosa devo fare per evitare l’inevitabile.
La Signora mi guarda con fissità e le sue parole sono in testa. Se parlasse direbbe qualcosa del tipo: Nessuno saprebbe dire quali illusioni ti hanno portato fino a qui, e un giorno forse imbottirai quella statua di cera di Elvis col tritolo dei sogni, getterai il refill della coca lontano nello spazio profondo e salverai le anime perse di tutti gli umani del pianeta come un eroe di breve vissuto e di grande coraggio.
Forse.
Più probabile che la Signora mi stia sopravvalutando e che io in realtà, nel profondo del mucchio d’ossa, carne e sangue, non celi altro che il nulla: non un pensiero, non un’idea, non un amore, non un ricordo. Solo la sopravvivenza è lo scopo, tra la sveglia del mattino e l’ultima birra della sera.
Quali essenze riempiono l’aria delle tue radici? Lo sapresti dire? O sei venuto qua solo per sfuggire alla noia della terra di periferia che si mangia le scarpe e lascia cicatrici profonde e violacee. La Signora soppesa, vuole farmi molte domande. Nel frattempo si ritrova a fissare lo specchio di un juke box finto, uno di quei posticci legami con il passato glorioso, sbirciando il trucco, timorosa che le squame possano riaffiorare, e non sente di appartenere a questo mondo e neppure all’altro. Chi è lei? Dovrebbe rispondere a questa domanda prima di tutto.
E io la guardo e lei non sa se deve chiedermi Per favore un altro po’ di coca o se deve ignorarmi, tanto sono abituato a passare tra i tavoli come un fantasma.
La Signora, regina degli esseri alieni, non mi può capire davvero ma ha la presunzione di capirmi e di conoscermi, filtro di una generazione senza armi e senza colpi in canna da sparare, senza forze di attacco, solo difese deboli e consunte, sfinite nello sporco gioco di finzione e realtà.
Lei cerca risposte da molto tempo, su questo pianeta relativamente piccolo, senza fare domande. Impara a non chiedere, tanto non avrai risposta, le aveva detto suo padre prima del viaggio interstellare. Nel sogno l’ho visto, e adesso lei è davanti a me, adesso che forse non è sogno ma realtà.
Se non chiedi forse arriverà una risposta, e sarà la risposta alla domanda di qualcun altro, uno che magari ti siede accanto in metro e si mangia le unghie guardando fuori dal finestrino: una linea di luce di panorami industriali del cazzo da cui nessuno mai scappa perché una volta che li vivi li hai dentro per sempre. Lei lo sa questo, lo ha capito, osservando noi umani nei nostri pensierosi tragitti di spostamento da un nodo cartesiano all’altro nel piano infinito delle possibilità motorie.
La Signora ha l’aria di dovermi indagare, ma io non posso essere ciò che non sono.
Le sorrido e non penso, la Signora sta per portarmi via. Io, scarno, senza un posto, la devo seguire in un mondo lontano?
Mi farà del male? O deve solo capire?
Beh, ho paura. Paura che resterà delusa, paura di non essere riuscito a dare corpo ai sogni, a discernere il vero dall’onirico, di non aver fermato in tempo il meccanismo e, anche se la Signora si sforza di non saltare alle conclusioni con facilità e spera di essere smentita da una storia potente di vissuto strabiliante, temo subirà la delusione della banalità.
Eppure non devo deluderla, sta a me questa volta, lei deve trovare la soluzione, e non posso essere che io, con gli occhi troppo profondi rispetto al poco che ho visto. Ma vedo lei, io solo, nelle notti di sogni, mentre gli altri non credono e continuano a sperare che il mondo rimanga tale e quale.
Devo mostrarmi a Lei degno di salvare il mondo. Altrimenti non mi rimanderà mai più quaggiù e tutti quanti dovremo aspettare lunghi e dolorosi anni di schiavitù, compresi i miei coinquilini, ma per loro in fondo non mi dispiace granché.
Sta a me dunque, devo fingere, e fingere bene, di essere ciò che non sono. Devo convincerla che posso rimediare a tutti voi, per tutti voi, che voi tutti mi ascolterete e capirete.
Spero che non mi tratterete come avete trattato Gesù, perché questo non è un avvertimento, dopo non avrete secoli per rimediare ai vostri peccati e dimenticare Pilato, non avrete chiese da riempire con le vostre preghiere e tavole da imbandire con la vostra ipocrisia.
Dopo non avrete che il niente, le squame vi inghiottiranno e io non avrò più sogni.
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