Verde di qua, Verde di là, “siete solo memicchi e polemichetta”, scrisse una volta Graziano Graziani nei bagni di PLPL. Caro Graziano, oggi possiamo finalmente chiedertelo, quanto ti sbagliavi da uno a dieci?
Undici?
UE RAGAZZI, FERMI TUTTI, ALT, non è così che funziona. “La Nuova Verde è un’altra”.
Breviario delle prossime scorribande della vostra rivista preferita.
Una maxi bomba sta per esplodere a Roma. Siamo orfani di Guru Leo, ne raccogliamo l’eredità. A maggio. Quattro serate. Quattro racconti a serata. Quattro giurie da quattro. Palette senza decimali ma in emoij. In poche parole: VERDE 4×4 VAN, praticamente un concorso letterario pazzesco.
Pazzesco? Seguiranno dettagli e bando. Restate in ascolto, vi conviene, qua facciamo la storia, quella vera.
Segnatevi questa data: 1 giugno 2019. Tag? Wojtek Edizioni, Luca Marinelli, AAVV.
C’è altro? Ovvio, benedetti ragazzi, ovvio: da venerdì 7 a domenica 9 giugno 2019 a Villa Bardini, Firenze, La città dei Lettori. Presenti. Contestualmente: SCENICCHIA UNA SEGA #2.
E Combattimenti tra cavalli, la newsletter di Verde a cura della Redazione ombra Guacamole? In arrivo.
Manca qualcosa? Non vi si può nascondere proprio niente, ragazzi cari? La redazione dell’Indiscreto e Vanni Santoni, che ringraziamo, hanno annunciato il ritorno delle Classifiche di qualità. Naturalmente ci siamo anche noi, insieme tra gli altri a Giorgio Biferali, Orazio Labbate, Gianluigi Ricuperati e Andrea Zandomeneghi. E la famosa nuova rivista cino-inserzionofila milanese? Non pervenuta.
FINE DELLE COMUNICAZIONI DI SERVIZIO. Veniamo al racconto di oggi: la quinta puntata di Barbette, l’ambizioso feuilleton noir thriller di Simon G. Helly che punta il dito contro il sistema editoriale italiano.
L’illustrazione è di Laura Fortin, da All Melody.
La serata della presentazione fu l’ultima volta che vidi il Barbetta, anche se lessi ancora di lui: non soltanto attraverso i suoi editoriali e le sue recensioni, ma anche negli innumerevoli eventi ai quali veniva invitato e nei post che scriveva compulsivamente su Facebook, dove ero uno dei suoi 8752 amici divisi tra due diversi profili.
Arrivati a questo punto, avrete capito anche da voi che per il sottoscritto si trattasse di una sorta di ossessione e che lui rappresentasse quel mondo dal quale mi convincevo di volermi distinguere, quando invece desideravo ardentemente farne parte.
Il sintomo più evidente di questo mio bisogno di riconoscimento era un account con appena 492 contatti, tutti quanti appartenenti, in un modo o nell’altro, al mondo dell’editoria. Periodicamente scrivevo ad alcuni di loro – editor, uffici stampa o semplici redattori – per comunicargli che avevo delle pagine da mandare in lettura, e periodicamente loro mi scrivevano di posticipare l’invio a quando il lavoro sarebbe stato concluso. Il mio problema, però, era che a una conclusione non ci sarei mai arrivato – ormai lo so con certezza – senza un parere, un feedback che mi confermasse di essere sulla strada giusta, e così scrivevo e cancellavo e ricominciavo da capo senza tregua. Ero arrivato a iniziare qualcosa come quindici romanzi diversi senza mai superare la metà del secondo capitolo e, senza la tragica dipartita del Barbetta, non avrei mai trovato una vera storia da scrivere. In un certo senso gli devo qualcosa, anzi: gli devo molto. Grazie al suo decesso mi ritrovo con questo manoscritto tra le mani e una manciata di agenzie che fanno a gara per accaparrarselo.
Sono consapevole del fatto che questa mia confessione possa annoverarmi tra i possibili sospettati, e a onor del vero non ho neanche un alibi visto che abito da solo, fatta eccezione per la presenza di un gatto che parla. In realtà sono io a dargli la parola, a fare insomma la sua voce, ma se non fosse per lui non avrei nessuno con cui parlare. Si chiama Bohumil, come Hrabal – lo scrittore di Una solitudine troppo rumorosa, anche se immagino che per voi faccia poco Weird – e con lui mi lancio in lunghe disquisizioni sul ruolo del letterato e sulla funzione della letteratura (sempre che ne abbia una). In ogni caso, se Bohumil venisse interrogato dovrebbe essere presente anche il sottoscritto, la qual cosa immagino che invaliderebbe la deposizione. Perciò rimango senza un alibi e con un romanzo che sembrerebbe piuttosto appetibile. Forse mi gioverebbe rivelarvi che sono a conoscenza di fatti tali da mettere in pericolo la mia stessa incolumità, motivo che mi spinge a usare le restanti pagine per esporveli in modo esaustivo.
Innanzitutto sia messo agli atti che non conoscevo l’appartamento del Barbetta, tantomeno il suo indirizzo. So per certo, però, di almeno un paio di scrittori e di una scrittrice che frequentavano assiduamente il suo salotto. Nell’ambiente sapevano un po’ tutti chi fossero i suoi protegés e la polizia non ci mise molto tempo a rintracciarli e interrogarli.
Il primo era un ragazzone robusto, uno sbarbato – mi si passi il gioco di parole – dinoccolato, che amava esibirsi col microfono. Quando leggeva le sue cose, con la voce impastata dal fumo e dall’alcol, non si capiva letteralmente niente, anche se alcuni spergiuravano che fosse capace di scrivere pagine struggenti. Farfugliava a testa bassa sulla sua sintassi, come se recitasse un rosario soltanto per sé. Si presentava insomma come un martire della letteratura che andava elemosinando un po’ di attenzione.
Si dice che il Barbetta fosse rimasto affascinato da quel disgraziato una sera che lo sentì leggere in uno di questi circoli culturali con le poltroncine in stile belle époque e i divanetti sfondati. Era arrivato che la performance era già iniziata ed era subito rimasto ammaliato dal ciondolare ipnotico di quel reietto, che avrebbe senz’altro fatto la sua porca figura in mezzo ai beat degli anni Sessanta. La giacca marrone tutta sdrucita, la pashmina viola annodata al collo, il cappello alla Bogart calato sulla fronte: tutto in lui concorreva a farne una figura maudit.
Il suo nome, ormai l’avrete capito da voi, era Aristide. Il famoso Aristide Baiocchi.
Il Barbetta lo inseguì mentre usciva di scena tra qualche timido fischio e si dirigeva al bancone per ordinare l’ennesima birra. Quando gli chiese del manoscritto, quello rimase a bocca aperta, mostrando i denti ingialliti dall’abuso di nicotina.
Si narra che Aristide gli rispose di avere qualcosa come cinquecentomila battute stipate dentro una cartellina consunta, tenuta insieme da un elastico di gomma, di quelli che usava la sua ex per legarsi i capelli. Quel romanzo parlava dello stato di abbandono e prostrazione in cui era caduto dopo esser stato lasciato, ormai due anni prima, durante un’apericena al Tufello.
La leggenda narra che lo scrittore gli rivelò di essere ancora in cerca del finale giusto.
Insomma, il Barbetta capitava proprio a fagiuolo.
CONTINUA (qui tutte le puntate)