NOVO PAZZESCO ROMANO #2: La tana della vipera #1

Nella periferia dell’Impero Toscano, a Roma e provincia, esiste una scuola romana di duri romani che fa cose pazzesche e noi abbiamo deciso di farveli conoscere con NOVO PAZZESCO ROMANO!
In questa seconda puntata pubblichiamo un racconto di Geraldo Costamagna, auto-proclamatosi inventore di un genere letterario, il cyber-risorgimental, una sorta di cyber-punk con elementi western e da romanzo zuzzurellone ma ambientato nel Risorgimento Italiano. Praticamente (un coglione? no, è un amico, più vicino di quanto pensiate): L’armata Brancaleone incontra l’Armata delle Tenebre. Geraldo dice di essere un venditore storico di stufe a pellet di Agrigento, appassionato di antichità, punk e stampe dell’Ottocento. Ama moltissimo sua moglie Isabella che chiama amorevolmente Isapulchra. Ha inventato il CSP: Cyberpunk Siciliano. Costamagna ci scrive mail spassose esclusivamente in latino in cui dice di apprezzare il nostro quid agis ma poi ci insulta citando Catullo, mostrandosi al corrente dei nostri studi professionali e tecnici (piastrellisti orfici, indirizzo elettro-dadaista, perlopiù) ma ignaro dell’esistenza di Google. Questa è la prima puntata de La tana della Vipera, la sua saga cyber-risorgimental, la prima della serie siciliana della carboneria del metallo di Palermo. Illustrazione come al solito PAZZESCA di Paolo Massagli che ringraziamo.

Per ore cantammo e arrotolammo sigarette con il tabacco umido che McCallaghan ci aveva portato. Tra gli strepiti stonati e i fumi dell’alcol non ci accorgemmo che quella notte ci stava fottendo per bene tutti quanti. Lo capimmo soltanto la mattina, quando Remo uscì dalla baracca per pisciare e scoprì che ci avevano rubato i cavalli.
Ci svegliò e ci trascinò alla staccionata. Era rimasta una capezza penzolante. E poi c’era il mare, dalla scogliera era blu, lucido e immenso. Remo faceva smorfie e si profondeva in gesti plateali, ma se avesse potuto parlare avrebbe bestemmiato dio come facemmo io, Toni e McCallaghan. Io diedi un pugno alla staccionata e una scheggia di legno mi si conficcò nel palmo. La mia mano prese a sanguinare, ma una cosa lieve. Toni si stava facendo cogliere da una delle sue crisi.
«E adesso come facciamo», chiedeva. «E adesso cosa gli diciamo all’Umbro?» La sua voce diventava ad ogni domanda più acuta, come se il suo inutile monologo salisse la scala di un pianoforte. «Porcamadonna siamo davvero spacciati. E adesso…».
Ma McCallaghan lo interruppe. Con una manovra fulminea gli piantò il braccio meccanico sotto le scapole e Toni cadde per terra senza fiato.
Poi con l’occhio di rubino Remo individuò una traccia. Ci indicò i pressi di un grosso cactus puntinato di fichi maturi, duecentocinquanta o trecento passi ad est della baracca. «Uno dei cavalli, troppo vicino al dirupo, avrà tentato di opporsi», ipotizzò McCallaghan. I segni degli zoccoli sull’erba disegnavano un semicerchio caotico, e al centro del semicerchio c’era una piccola spilla d’argento. Ci eravamo sporti a guardare verso gli scogli, ma di una caduta di lì non si vedeva traccia.
Toni si era alzato e un po’ arrancando ci aveva raggiunto. Era una di quelle spille di microreficeria, un pezzo di fattura meravigliosa. Sulla capocchia tonda, piccolissima, era istoriata al dettaglio l’esatta microricostruzione di Palermo, con gli archi esterni e le torri della cattedrale, la vucciria con ogni singolo banco, il palazzo dei normanni e Santa Maria della catena, il porto, con perfino i marciapiedi e qualche carrozza che il mastro orefice probabilmente si era ricordato d’aver visto passare da questa o da quest’altra parte, in questo o quest’altro momento, tutto riprodotto alla perfezione.
«È incredibile», ci disse Remo con il linguaggio dei segni mentre McCallaghan se la girava tra le mani. Era di noi l’unico a poterla davvero apprezzare, Remo, e ci fece capire che fino a quel giorno di questo genere di oggetti ne aveva soltanto sentito parlare. Poi aggiunse che il metallo era stato trattato di recente, il suo occhio avvertiva ancora il calore delle fiamme che la rendevano molle. Doveva essere stata fatta negli ultimi otto o dieci giorni.
C’era solo un posto, forse su tutta l’isola, dove una cosa del genere poteva essere stata prodotta, e questo posto era proprio a Palermo, la bottega di Diecibraccia, che era un luogo misterioso e come tutti i luoghi misteriosi era anche un luogo leggendario.

Quindi avevamo un ladro di cavalli che doveva essere venuto apposta fin lassù al Bandito per ordire nei nostri confronti una specie di trappola. Non si rubano cavalli se ti puoi permettere una spilla di microreficeria, neanche se puoi soltanto permetterti di rubarla. Non si rubano cavalli, soprattutto alla nostra banda, se non hai le spalle grosse o comunque un motivo forte per rischiare così stupidamente la pellaccia. Quel motivo poteva essere solo la nostra taglia. Dopo che avevamo posto sotto assedio, con il solo supporto di fuoco di un paio di uomini dell’Umbro, il paesino di San Vito, per due giorni e due notti, le nostre teste erano reclamate da mezza Sicilia, e il governatore era disposto a ricoprir d’oro chi c’avesse preso.
A Palermo c’erano banditi, guardie e militari pronti a combattere, sicuramente più numerosi di noi. Si prospettava dunque una puntata in un territorio ostile e molto pericoloso. Ma, se escludiamo una nuova crisi di Toni, che da quando era andato contro a un recinto elettrificato non era più lo stesso, aveva paura d’ogni cosa, quasi come se si fosse rotto; ormai per farlo stare zitto non si poteva far altro che percuoterlo violentemente, picchiarlo, detto volgarmente, o meglio farlo picchiare da McCallaghan. Un’onta del genere non sarebbe mai potuta restare impunita.

Entrammo a Palermo nella massima riservatezza, facendoci passare per contadini dopo aver saccheggiato il carro di un uomo che con la moglie si stava spostando in città, per un mercato rionale, forse. Dopo esserci divertiti con la moglie del contadino ci dividemmo, io e Remo, Toni e McCallaghan. La punta era all’osteria dell’Aringa Lardellata, dove trovavi sempre mezza banda dell’Umbro, una zona franca.
Quando arrivammo Toni ci corse incontro. Era agitato perché McCallaghan aveva polverizzato la mano a uno che l’aveva sfidato, un carbonaro del cazzo, un ubriacone che la menava con la storia del sovvertire la dominazione. Uno di quelli arrivati l’altro ieri su un peschereccio dalla Calabria, che si pensano di salvare i poveri ignoranti dell’isola. A quanto pare, ma il racconto di Toni era confuso, prima McCallaghan aveva promesso di ficcargli il suo stesso braccio nel culo, poi si era limitato a stritolargli la mano. Il poverino era svenuto per il dolore e si era pisciato addosso, ma ora il padrone dell’Aringa non voleva più saperne di McCallaghan. «Ah, quel McCallaghan!», esclamai pensando che creava sempre più problemi di quanti ne risolveva.
Per far tacere il padrone, poco propenso ad attirare le attenzioni dell’autorità, visto che  lì dentro ospitava praticamente i briganti di mezza Sicilia, oltre a fare il nome dell’Umbro, che in parte lo intimorì, dovemmo pagare il doppio.

Il giorno dopo ci mettemmo alla ricerca di informazioni per trovare la bottega di Diecibraccia. Era un’impresa difficile, perché se le gesta di questo artista della microreficeria erano sulla bocca di tutti, non altrettanto si poteva dire della sua collocazione. Sapevamo però che a Palermo se vuoi avere qualcosa devi pagarla, e c’era solo un posto dove si poteva comprare di tutto, da un agnello sgozzato o vivo a un polmone meccanico per respirare sotto l’acqua, e alle informazioni, ovviamente. Questo posto era la vucciria.
Ci infilammo nel caos del mercato disperdendoci. Io andavo a tentativi avvicinandomi i soggetti più loschi. McCallaghan e Toni andavano insieme perché, da quando Toni aveva avuto quel brutto cortocircuito, si compensavano a vicenda. Ma il più indicato per la ricerca era Remo, che con il suo occhio di rubino si diceva potesse vedere nell’anima della gente. In effetti fu il primo a trovare una traccia. Mentre tiravo via Toni da una mischia che McCallaghan aveva scatenato, prima che gli andasse in loop il sensore per l’estrazione rapida e facesse una strage, come era già successo con quei dieci viandanti sulla strada per Catania, Remo si avvicinò e, gesticolando, ci richiamò tutti all’ordine. Aveva trovato una pista.

Seguimmo questo poco raccomandabile macellaio che parlava solo di polpette e aveva un grembiule bianco tutto macchiato di sangue, una copertura eccellente. Gli stavamo dietro e lui ci faceva percorrere delle vie che neanche immaginavamo potessero esistere, delle vie che forse dopo il nostro passaggio neanche sarebbero esistite più. E alla fine questo grasso grosso palermitano mannaia-munito si fermò e ci indicò un grosso portone di legno massiccio incastonato in un’arcata di pietra con una sfera, al posto dei soliti simboli araldici sulla testa, una sfera di vetro che sembrava l’occhio di un gigante.
La porta si aprì nel momento in cui ci avvicinammo. Ci girammo indietro ma il macellaio era sparito. Dopo un lungo corridoio buio varcammo un’ulteriore porta e allora lo vedemmo: appeso sul soffitto grazie a due dei suoi dieci o cento arti meccanici. Erano tantissimi, e terminavano in minuscoli cacciavitini, forbicine, martellini, lenti di ingrandimento, piccole fiamme ossidriche con cui Diecibraccia modellava una sfera minuscola d’oro posata su un piedistallo cilindrico sottilissimo che arrivava fin quasi all’alto soffitto, dove era lui. Tutto attorno fluttuavano sfere di ogni sorta, come per magia, e per un attimo io ebbi l’impressione che lì si stava costruendo un nuovo mondo, un mondo come il nostro ma migliore.
Poi persi i sensi e caddi, l’ultima cosa che vidi furono McCallaghan, Toni e Remo che perdevano i sensi con me. Tutto come previsto, era una trappola.

CONTINUA (qui tutte le puntate)

Geraldo Costamagna

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