Precipizialità (Anatomè 2018)

cadavreexquis

Praticamente una delle feste. LA festa, invece, è qui

Amiche e amici crapuliani e non, il testo che leggiamo oggi è un estratto da Precipizialità, il racconto di Andrea Zandomeneghi contenuto in Anatomè – Dissezioni narrative, a cura di Antonio Russo de Vivo e Andrea Zandomeneghi, uscito a ottobre 2018 per i tipi di Ensemble edizioni (la trovate qui, qui invece una bella segnalazione del volume). Presenteremo l’antologia sabato 8 dicembre alle 20:30 allo Sparwasser, a Roma: saranno con noi Luca “El Miño Maravilla” Mignola, Erika “Amerika” Nannini, Alfredo “The Boss” Zucchi e Luca “Er Cane Malefico” Marinelli (ci stiamo lavorando).
Nell’immagine: una delle feste che si terranno a Roma sabato 8 dicembre 2018. Alle 20:30 invece, comincerà Scenicchia una Sega #1 – Praticamente un festival, LA festa evento dell’anno e unica in cui troverete torte salate, combattimenti tra cavalli e un numero speciale stampato in tiratura limitata ad hoc (Verde torna al cartaceo). È abbastanza chiaro? (Ci siamo capiti).
Buona lettura.

Mi disse che di cose pretesche e pretesche sudice ne sapeva fin troppe e che dopo una tiepida militanza in AC era definitivamente approdato al sindacato studentesco, benché bocciato quattro volte per le centinaia di assenze, nell’Istituto professionale alberghiero che ancora frequentava.
Fece poi un lungo discorso circa gli atei, un discorso ardito ma fumoso e involontariamente spiraliforme al punto da riannodarsi e ripiegarsi ripetutamente su se stesso: la digressione come fondamento del discorso, pensai. Un discorso a tratti delirante, un monologo fluviale che non prevedeva contraddittorio.

Questo discorso riguardava gli atei e gli stereotipi in relazione agli atei e gli atei stereotipati. Poi si fermò, andò a prendersi una Tennent’s per sé e ne portò una anche a me, offrendomela, e disse, più o meno – che io ricordi – che era necessario, assolutamente necessario, parlare degli stereotipi; disse però che prima più in generale voleva chiarire una cosa essenziale, e cioè che lì, nella sua caduta rovinosa e spettacolare in viale Guidoni, Rorschach non c’entrava nulla: Nicola vide – e quindi si distrasse e per questo inciampò – semplicemente un volto nella pozzanghera che lambiva le strisce pedonali. Precisamente: non vide un volto – il suo, quello di un fantasma, quello di Loki, quello di un altro, quello di sua zia Caterina o quello di Dio Jahvè – riflesso nella pozzanghera. No. Lui vide nell’amorfità del perimetro frastagliato della pozzanghera la forma di un volto – ed ecco (mi pare di ricordare che disse, ma in modo più prolisso e con parole sue) che qui parte la banalità e la concatenazione di categorie verbali (e similconcettuali) usurate e luoghi comuni idioti coatta dell’uomo contemporaneo pseudocolto: quando un soggetto legge una figura di senso compiuto in una forma amorfa allora si è in presenza di una di lui proiezione inconscia: questa lettura è quindi, e per questo, interpretabile e interpretanda: una chiave d’accesso privilegiata alla sua personalità più vasta che travalica la punta-dell’iceberger-coscienza prolassando entro la muraglia di cemento armato irta di offendicula (uncini, non pezzi di vetro o filo spinato) che recinta e presidia territori celati all’io consapevole (e dall’io consapevole) e appartenenti al sé complessivo, appartenenti agli antipodi della coscienza; cioè si è in presenza di un valico in virtù del quale si può raggiungere la sua psicologia dinamica profonda – quella divinità che abita in noi e che in noi senza posa si inabissa e riemerge anfibologica e proteiforme: l’inconscio. Come nel caso dei sogni, degli atti mancati, dei motti di spirito, dei lapsus: ecco sfoderati – o meglio buttati a casaccio sul tavolo (quale tavolo? quello del discorso: della digressione che il discorso fonda: ovvio) – i numinosi attrezzi dell’armamentario postmoderno che pensa il sé come attingibile con strumenti umanistici tecnico-dialogici e che vuole attingerlo affamato e che crede di poterlo realmente attingere. In modo oggettivo e positivo, per giunta! Ottimo esempio di tracotanza. Ecco, capiamoci: questa miscellanea-trogolo di stereotipi – va detto che è non solo viscosa, ma anche parecchio zuccherina: mille volte mille mosche ci rimangono appiccicate e periscono deliziando Belzebù loro Signore – ipersuperficiale (quindi fraintesa, fraintendente e riduzionistica) di Freud e Rorschach e compagnia bella, questa roba qui non c’entra nulla. Non c’entra nulla – per essere chiari – di nulla nemmeno Levinas, sulla fallacia del quale, se ci sarà occasione, varrà forse – ma solo forse, probabilmente no – la pena raccontare un aneddoto: quello del volto del serpente (quindi il volto non umano) che sgretola e nullifica il suo bel pensiero da catechista (peggio: da collegiale educanda) antropocentrico, lo fa voltare indietro e gli fa fare la fine della moglie di Lot: «ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale» – Genesi 19, 26. Ergo: tabula rasa – locuzione volgare e inflazionata, ma efficace: sacrifichiamo un pochetto di istrionismo estetico-stilistico sull’altare della comunicabilità a-controversa.

Detto questo ci si può togliere subito un sassolino dalla scarpa e già che ci siamo aggiungere finalmente qualche postilla sugli stereotipi: gli stereotipi, si diceva, sono viscosi. Ciò che è viscoso è sommamente pericoloso perché rimane appiccicato e una volta che ti lorda – e ti ha lordato senza che te ne rendessi conto – è catrame: si provi a calpestare catrame sulla spiaggia e poi a toglierselo: la parte solido-plastica viene via tranquilla, ma pulire e smacchiare l’alone oleoso che ha intriso la cute non è così facile. Al contrario. Perché gli stereotipi lordano senza che ci se ne renda conto? Perché hanno una natura contaminante che pervade implacabile, grazie a questa sequenza: io individuo evoluto e colto ho gli strumenti per restare immune dai nocumenti mentali degli stereotipi; posso quindi consapevolmente usarli senza che loro mi usino e mi vivano; così li uso, esplicitamente nell’ironia, nell’autoironia, nel turpiloquio e implicitamente (dandoli come presupposti, come puntelli sottesi al discorso) nel sarcasmo e nell’accondiscendenza: siccome li ho individuati e etichettati come stereotipi di conseguenza li ho decostruiti e privati del loro potere: la consapevolezza della loro essenza vacua fa sì che in me siano esorcizzati e che io possa giocarci ad libitum strumentalizzandoli come sfumature ulteriori che arricchiscono e ampliano la mia abilità espressiva e come armi che potenziano la mia capacità persuasiva e psicagogica. Gli stereotipi sarebbero quindi come un cappellino, un braccialetto, un maglione: accessori che posso indossare quando mi fa comodo e mi va (magari me li metto per far ridere un collega d’ufficio: cameratismo: il palcoscenico preferenziale degli stereotipi) e dismettere con un semplice gesto: mi tolgo il cappellino, tanto più che lo usavo giusto a fini ironici. Ecco: non è affatto così! Al contrario, io persona evoluta non mi accorgo che facendone uso essi mi abitano e mi informano in maniera strisciante e proditoria; non mi accorgo che invece di esorcizzarli gli do nuova linfa vitale: indirettamente faccio sì che si perpetuino nel panorama semantico e semiotico umano. Li aiuto a persistere nell’essere in me e fuori da me. Gli stereotipi quindi non sono maneggevoli a differenza di quello che si pensa, loro si nutrono di tutto, sono maiali e come maiali sono onnivori.

Senza tediare troppo oltre: non è vero che li ho decostruiti totalmente in me (se anche li avessi totalmente decostruiti in me, lo avrei fatto solo al livello scarsamente significativo della ragione vigile, non ai livelli più speleologici e energetici: sopravvaluto il mio essere evoluto: l’evoluzione è molto più lenta e sanguinosa ed è categoria scivolosa, da nichilisti utopisti escatologici, da Ippolit dell’Idiota) e di certo non sono affatto totalmente decostruiti nel linguaggio e nel pensiero e nell’immaginario condiviso e così continua a diffondersi l’epidemia infettando le categorie verbali e concettuali e quindi antropologiche in senso lato che plasmano il volto della realtà comune nella quale tutti ci muoviamo.

Ultima sbrigativa considerazione: gli stereotipi sono sempre – e con sempre intendo sempre – normativi, repressivi, conservatori in senso bieco e retrogrado. Sono la propaganda invincibile della retroguardia del letamaio inutile, dannoso, necroforo, oberante che l’umano procedendo nel suo percorso (non si sa dove si va, ma l’uomo si muove, forse in cerchio, forse a spirale, forse a zigzag, forse correndo incontro all’apocalisse o al nulla: è indifferente – conta che si muova e state sicuri che si muove) produce e che vorrebbe lasciarsi alle spalle: lo ha defecato, deve rimanere nel cesso, non seguirlo quando torna in sala. Però l’umano si scorda di usare la carta igienica, si illude di avere il culo pulito dopo aver cacato: invece il culo è smerdato e quella merda puzzerà e sporcherà le sue mutande e si infiltrerà nei pantaloni e poi quando lui avrà prurito – l’umano ha sempre prurito – e si gratterà l’ano, allora si smerderà la mano e poi smerderà tutto quello che tocca. Ecco perché qualunque uso un soggetto faccia degli stereotipi – per una divertente e tragica eterogenesi dei fini – non potrà che essere un collaborazionista della coprofilia e della scatologia antropica: del male id est. Questo discorso vale nel modo il più veemente per la parola che parla le femmine-donne e gli omosessuali-froci.

Andrea Zandomeneghi

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