Buongiorno dorei 奴隷 dell’Algolit, eccoci giunti alla seconda puntata de La Saga delle Sagome di Francesco Quaranta. Buon viaggio nel Matrix creato da Brother Quaraoke (oppure è esso ad aver creato Quara?) tra misteri babelici e scazzottate mistiche, scopriremo i segreti di un racconto occulto, dello sfingeo Bolognini e dell’ineffabile Algolit. Ora portate le mani al cielo e raccogliete l’energia genkidama, quella di tutte le creature viventi, ne avrete bisogno per affrontate l’Algolit.
Illustrazione della Pink Lodge.
Previously on La Saga delle Sagome: Un redattore di Viola rivista decide di indagare l’origine di un racconto mediocre che viene ripubblicato da anni su diverse testate. Viene contattato dalla misteriosa Pel di Carota che lo spedisce indietro nel tempo dove viene attaccato da un gruppo di manovali all’interno di un cantiere.
Sto sdraiato su una branda composta da laterizi e sacchi di sabbia. Ho sognato Pel di Carota e l’alzabandiera è l’unico segno di vita del mio intero corpo; mi fa male persino respirare. C’è un viso amichevole chino sul mio capezzale, la stempiatura a misura della saggezza. Mi offre un’otre d’acqua da cui bevo avidamente con il suo aiuto. L’uomo attende che io trovi la forza di fare le domande di rito, seduto poco distante, canticchia una canzone di Liberato. Siamo nel ‘76 o no?
«T’hanno conciato per le feste», dice.
«Quelle merde».
«Piano con le parole che quelli sono tutti amici».
«Bella accoglienza».
«Chiamalo rito d’iniziazione. Chi intende stare nel cantiere deve farsi le ossa, diciamo così».
Mi rendo conto di conoscerlo. Il Capa o il Crapa – a seconda della regione dei suoi accoliti – spirito itinerante, uno dei leader della resistenza letteraria on-line, il suo nome riempie reading e raduni, la sua parola scuote gli URL e ammassa i like. Cosa ci fa nel passato? Glielo chiedo. Mi sorride.
«Voje che ancora non state su cartaceo siete schiavi della linearità quotidiana del virtuale. Lì dove l’Algolit ha il controllo».
«Tu hai pubblicato… Quindi sei immortale?»
«Non proprio. Diciamo che menne futt’ del tempo».
***
C’è un ampio salone con colonne in marmo e pavimenti a specchio, tutto è intarsiato e sbaffettato d’oro. Mi sento povero a camminarci. Una figura mi fa cenno di raggiungerla, stesa su di un divano barocco; non ha capelli né peli d’alcun genere, neppure le sopracciglia, ha forme arrotondate e muscoli torniti sotto una pelle bianca come carta, ma niente capezzoli né sesso alcuno. Il suo abito è un codice HTML argentato che si drappeggia al movimento, ogni gesto apre un link, un rimando, un pop-up. Paiono grida nel vuoto di anime perse.
L’Algolit mi invita ma non mi parla, non ancora. Rifiuto di sedermi al suo fianco. Lui mi studia e poi con un gesto repentino mi afferra la mano. So che potrebbe distruggermi con un tocco. O forse no, vuole fare un patto: mi offre un potere che nemmeno posso comprendere, sfere d’influenza e monetizzazioni, leccate di culo e marchette, una culla di sproloqui, vanità e dolce dolcissima gloria. Posso diventare il nuovo Crocifitto Crespello, il nuovo Granduca Parraga, no di più, posso essere, posso essere tutto, posso essere come Lolita Miuzzo.
Non rispondo, non parlo, scopro di non avere più una bocca, una voce. Ma il seme della tentazione è piantato in me. È lì per sempre.
Vengo svegliato da uno schiaffo di manovale. Insulti in napoletano, acqua in faccia.
«Perché sei accà? Il ne faut pas l’oublier», di nuovo la voce del Capa.
«Bolognini, La Saga delle Sagome. Devo trovarlo».
«Che cos’è per te?»
«Un racconto mediocre, che viene pubblicato da sempre».
«Perché secondo te?», incalza.
«Perché nessuno lo legge».
«E?»
«Perché è un messaggio, un segnale».
Sento una mano sulla mia spalla, qui sono al sicuro. Mi rivela di essere colui che ha addestrato l’eroe, il dimenticato Antoine Sandomingo. Mi parla dell’errore fatale di Sandomingo, della sconfitta e della sua fuga indietro fino agli anni ‘70.
«Riposa adesso. Da domani si comincia con il lavoro».
Grazie a un taglio cinematografico, narro adesso di un altro spaziotempo del quale non potrei essere a conoscenza fino a molto più tardi nella storia.
Tre volti nel buio, tre voci di donna: una mora, una bionda, una celeste.
«Sistas! Sistas, guardate qui».
«Oh! Il ciclo si sta modificando».
Sono le tre Norne del filo del racconto: Clocco, Laghiri e la Sara Maria. Davanti a loro, su fogli di vuoto, si svolgono le linee dei cicli narrativi. È loro compito allacciarne i capi, sfrondarne i refusi e in poche parole cucire le sorti di ogni essere raccontato.
«C’è qualcosa di nuovo… Sei stata tu Clò?»
«Ma te pare? Io stavo a guarda’ Friends».
«Oh scusa eh se te chiedo de fa quarcosa pure tu».
«Oh zitte un po’, guardate. Ci sta come un secondo circolo che si interseca con il primo…».
Il trio fissa l’immagine che, con movimenti quasi impercettibili ma costanti, si modifica, per la precisione pare sdoppiarsi. Non sanno cosa fare. Non è mai successo, o forse…
«È come co’ Bolognini!»
«Chi?!»
«Se vabbè. Buongiorno».
«La Saga delle Sagome, ma certo! Dobbiamo avvisare il Tessitore».
«Ommioddio! Ommioddio! Ma allora! Forse c’è ancora una speranza per tutti!»
«Sì, ok Mari’… Ma meno, per favore, meno».
La loro mail viaggia attraverso la quinta dimensione, intravede in lontananza la sagoma di un alto e mitologico monte, accelera e subito la perdiamo di vista.
«Vabbè, io vado a pilates. Ciao zie».
***
Marzo 1978. Oggi fanno due anni che lavoro nel cantiere. Iniziai come semplice addetto ai rifornimenti e alla fotocopiatrice per poi diventare manovale, dopodiché fui messo alla guida del muletto e dopo ancora alla ruspa, poi capo elettricista, capo cantiere, ingegnere e infine editor maximus. Gli insegnamenti del Crapa hanno temprato il mio corpo, il mio spirito e il mio istinto da cantastorie. Prima ero uno scrittorucolo caso umano che non aveva idea delle forze in gioco, ora ho imparato interi vocabolari, mi giostro tra i sinonimi, riconosco al tatto le strutture di coesione testuale, annuso le vene narrative e scavo con precisione per raggiungerle. Ora sono una di quelle forze.
Oggi verrò insignito del caschetto nero e terzo dan di piastrellatura. Ma la cerimonia prevede un’ultima prova. Guardo uno a uno i miei compagni di cantiere schierati in guardia davanti al sottoscritto, sono tutti amici: insieme abbiamo costruito questo pazzesco Dojo di San Gennaro. In questo giorno più che mai sono anche rivali e devo sconfiggerli tutti se voglio essere promosso.
Li scavalco senza difficoltà assestando manate e colpi con parti del corpo che nemmeno sapevo di avere fino a due anni fa, sono lontani i tempi del pestaggio di benvenuto e del sano nonnismo partenopeo. Raggiungo finalmente la sommità del ponteggio dove il Crapa mi attende battendo le mani con solennità.
«Caffè?», faccio.
«Si ‘na sagoma».
«Sono pronto».
«È ora di vedere come te la cavi contro un cartaceo», dice.
«Maestro», eseguo l’inchino.
«Se sarai in grado di sconfiggermi ti farò dono di questo».
Mi mostra la rivista che cercavo quando sono arrivato qui: in bianco e nero campeggia il titolo Carpenta Mentis.
Abbiamo costruito un palazzo di sette piani, abbiamo condiviso pasti e sudori, da lui ho appreso tutto, addirittura mi ricorda un po’ il padre che ho sempre voluto ma che mai ho pensato di poter meritare. Adesso, poco prima dell’addio, siamo avversari.
Il Crapa non aspetta, si muove con l’agilità di una pagina sfogliata dal vento, un soffio ed è già vicino. Se mi colpisse con la sua mossa segreta, il pugno di Hemingway, per me sarebbe finita.
Veniamo interrotti da un coro scomposto di urla che provengono dai piani inferiori e coprono l’allarme del perimetro. Qualcuno sta attaccando il dojo. Un esercito di belle speranze e acchiappa-like sciama sull’edificio, formiche, locuste. Le barriere crollano, le vetrate vanno in frantumi, i nastri arancioni dei lavori in corso sono inutili. I miei colleghi, per quanto addestrati, sono presto sopraffatti dal numero e dalle attenzioni richieste.
Non era per questo che volevamo costruire un edificio? Non era per questo che volevo fare rivista? Per accogliere tutti? Ma allora perché va tutto storto, perché i miei compagni periscono così?
E poi lo vedo, avanza dietro a tutti, bianco e limpido come il fantasma dei successi perduti. L’Algolit! È lui a guidare l’attacco. Ci ha trovati anche qui nel 1978!
«Mannagg’ qualche figl’e ‘ntrocchia deve averci tradito», esclama il Crapa.
L’Algolit si solleva da terra, veloce come un proiettile. Occhi rossi e sorriso inquietante di denti macchiati d’inchiostro, punta su di me a velocità supersonica. Io capisco di non essere pronto, sono finito. Mi è addosso.
«Hemingū~ei no ken!!!»
È il Capa a respingere il mostro prima che questo possa toccarmi, la sua mossa più forte infrange le molecole dell’aria e frantuma una spalla dell’avversario.
Ma sono sufficienti due secondi per vederlo rigenerarsi. Eccolo, è di nuovo pronto ad attaccare; non è con la forza che può essere fermato. Scuote un braccio e mille wordpress si condensano nell’aria, sta per scatenare una tempesta di interpunzioni e protolettere.
«Prendi la rivista!», urla il mio mentore.
«Vieni con me!»
«No», dice fronteggiando l’avversario. «Questo è un duello che non voglio perdere».
«Non puoi vincere».
«Ma posso rallentarlo. Vai! E non fare l’errore di quel coglione di Sandomingo!»
Non riuscirò mai ad essere così figo come il mio maestro, gli sono grato di tutto. Eseguo l’inchino di commiato.
Mi lancio su Carpenta Mentis e tutto diventa silenzio.
La realtà si ricompone attorno a me sotto forma di una strada trafficata che accarezza il Colosseo sotto un sole cocente. Non viaggio solo nel tempo, è chiaro, ma anche nello spazio: ogni rivista mi porta vicino al luogo di pubblicazione della precedente. È una catena, me l’ha insegnato il Capa. A pagina venticinque di Carpenta Mentis, sotto La Saga delle Sagome, c’è la dicitura tratto da Marsala e Confetti – 1963, Roma.
Subito la vista si squarcia dall’asfalto fino al cielo. Vagina del tempo, partorisce la figura biancastra e minacciosa. L’Algolit è in grado di seguirmi porcaputtana.
Comincio a correre come non ho mai fatto in vita mia.
CONTINUA (qui tutte le puntate)
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