Compagno Baian

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Demerzelev– Pasolini intervista Ungaretti: Che cos’è un meme? #3

Buon lunedì cari amici apolitici e arrivisti, disinteressati alle cose del mondo, amici amorali allergici alle spese immorali altrui, in attesa di sussidi e pronti a girar la testa dall’altra parte. Oggi è un bel lunedì! Perché, dite voi? Beh, perché Marco Morana torna con noi con questo gran bel racconto di amicizia e politica. Questo è il suo quarto racconto per Verde, forse vi ricordate di lui per Brenda di ferroFlaminghi nel gazone e Ferita.
Illustrazione di Demerzelev, la terza di Paso feat. Unga: Che cos’è un meme?
Buona lettura, trap boys post-ideologici.

Aggiornamento: Quello che avete letto sarebbe stato un post normale di una Verde normale e tranquilla, ma così per fortuna o sfortuna non è, perciò se non lo sapeste già vi invitiamo a partecipare al sondaggio. Finora è un testa a testa pazzesco: 23 a 26. Qua si creerà un pericoloso precedente, non solo per Verde, ma per tutte le riviste. La redazione è sovrana, il suo voto è insindacabile, oppure il pubblico può influenzarne le decisioni? Ci stiamo imborghesendo e non abbiamo capito il racconto della dottoressa Pamplona? Fateci sapere, aspettiamo in laico silenzio pronti a recepire ogni vostra indicazione. Votate. Grazie.
Continuiamo con la nostra normale programmazione, scusate il disagio democratico.

Mi chiamo Baian ed ero uno dei soci dell’Impasse. Amministravo le finanze del locale, ma la mia occupazione preferita era il personale. Ferie, assunzioni, richieste eccezionali, stipendi, lamentele. Solo rogne, penserete voi, ma io ero bravo, perché era un lavoro politico, di mediazione, e a me è sempre piaciuta la politica. Negli anni avevo capito come tenere a bada i dipendenti, e per questo la cosa che mi disse quel giorno Agostino mi sorprese.
«Non puoi più tagliarci lo stipendio. Se lo fai ancora, vado al sindacato».
Anche se pagavo il minimo, in quarant’anni di attività nessun lavoratore aveva mai osato parlare di sindacato. Il trucco era la flessibilità: pause illimitate, turnazione variabile a seconda delle esigenze personali, possibilità di mangiare due volte a turno e sostanziale parità di mansioni tra tutti i lavoratori. In questo modo riuscivo a sedare sul nascere ogni possibile rivendicazione, a creare un clima disteso e senza troppe gerarchie.
«Sono sei mesi che ci togli cento euro. Cento euro per sei sono seicento».
Non ebbi nemmeno bisogno di cercare gli argomenti per fargli abbassare la cresta, ormai andavo in automatico.
«C’è crisi, Agostino. Dobbiamo fare ancora qualche sacrificio».
Il mio compito in quanto datore di lavoro era far sentire sempre ai miei sottoposti la paura. Purtroppo però Agostino quel giorno non abboccò.
«Non è vero che c’è crisi. Siamo pieni ogni sera».
Il suo tono mi indispettiva eppure lo capivo. Aveva quasi sessant’anni ma si muoveva in bici e viveva ancora in una casa di periferia con tre coinquilini. Riuscivo a immaginare quanto dovesse sentirsi insoddisfatto, ma io cosa potevo farci? Il suo stipendio era in linea con gli standard del mercato. Per quanto fosse un’istituzione, l’Impasse puntava sui grandi numeri. Il servizio era informale e i prezzi dovevano restare competitivi. Non potevo pagarlo come uno chef de rang di un ristorante stellato. E poi, a Roma c’erano posti che chiudevano dopo due mesi. Almeno da noi era sicuro di prenderli, quei due spiccioli.
Invece sulla crisi non aveva tutti i torti. C’era stata una fase di grave flessione intorno al 2013, ma nel 2017 la situazione era migliorata. La ripresa era merito dei turisti, che spendevano sfrenati e arrivavano a fiotti e senza grandi pretese. Gli italiani erano sempre più poveri, e, a parte qualche cliente storico, non se ne vedevano molti.
Comunque non potevo dargli ragione. Se si fosse diffusa la voce che gli incassi erano tornati buoni, sarebbero aumentate le pretese di tutti e questo non potevo permetterlo.
«Abbiamo tanti debiti, Agostino».
«E allora perché avete ristrutturato la cucina? Quanti soldi avete speso? Quarantamila?»
Si permetteva di mettere bocca sulle strategie aziendali. Dovevo porre fine a quella discussione.
«Quei lavori andavano fatti per rilanciare l’immagine del locale, Agostino. Ho chiesto un fido alla banca, se proprio lo vuoi sapere. Ma non posso chiedere alla banca un prestito per non tagliarvi lo stipendio, mi capisci?»
Agostino fece un sorriso vuoto. Adesso che l’Impasse non c’è più posso immaginare che dal suo punto di vista avessi detto una follia. Ma all’epoca il mio discorso mi sembrò ragionevole e necessario. Il mondo della ristorazione funziona così. Se devi stringere, lo fai sugli stipendi.

Tornai a casa. Una sconosciuta con una faccia rugosa e imbellettata era sdraiata sotto le coperte, intenta a sfogliare una rivista di gossip.
Chi è questa qui? Perché è a casa mia, sul mio letto?
Bastarono pochi attimi perché mi rispondessi: Ah, è mia moglie. Certo.

Quando ci eravamo incontrati avevo trentacinque anni. Non ero bello ma sfoggiavo quella sicurezza guardinga e fiera di chi ha raggiunto una buona posizione partendo da zero. Lei era vedova di un avvocato, nata e cresciuta in un quartiere della Roma bene. Cominciammo a frequentarci. Mi portava in posti in cui non avevo mai osato avvicinarmi, i posti dei privilegiati, come li chiamavo all’epoca prima di diventare io stesso, un privilegiato. I suoi amici privilegiati mi scrutavano con un misto di disprezzo e venerazione. Per loro il ristoratore era un mestiere umile ma fascinoso. Voleva dire giocare con gli istinti primari degli esseri umani, come la fame, l’ebbrezza, istinti che di notte si liberavano senza freni.
«Mi piaci perché sei estraneo a questo mondo di snob eppure ci sai stare», mi disse lei una sera mentre tornavamo a casa dopo una festa in terrazza, «però non ti fare illusioni: io sono come loro, forse peggio».
Fu quell’estrema lucidità a convincermi di sposarla. La mia futura moglie non fingeva di essere qualcosa che non era. Conosceva i suoi limiti, se si possono definire limiti il fatto di essere ricca sfondata. L’ho sempre pensato: il massimo che un essere umano possa fare contro le proprie debolezze è riconoscerle.
Eppure in trent’anni di matrimonio non c’è mai stato nemmeno un momento in cui l’hai stimata, mi provocò la voce di Agostino mentre mi stendevo accanto a lei.
Perché continuava a perseguitarmi? Da dove veniva quella voce? Anche in questo caso, però, stava dicendo la verità. Mia moglie non era una persona integra e profonda, e io non l’avevo mai stimata.
Come moglie mi sembra meglio di tante altre. Almeno non si è arresa alla vecchiaia,  ribattei sottovoce all’inesistente Agostino.
E infatti, poco dopo, a luce spenta, perché i nostri corpi erano irrimediabilmente sfatti, varici di qua, cuscinetti cartavetrati di là, lei mi diede ragione: mi abbassò le mutande e mi masturbò fino a farmi eiaculare. Lo faceva sempre, con una regolarità efficiente e puntigliosa. Non si faceva toccare e non le passava nemmeno per l’anticamera del cervello di prendermelo in bocca o di concedersi per una scopata. Semplicemente, voleva che mi svuotassi nel modo più igienico possibile.
Quell’operazione era asettica, non squallida ma un po’ miserevole sì, eppure, nonostante questo, io mi ritenevo fortunato. I miei coetanei avevano chiuso con il sesso, almeno quello gratuito. Chi si dava alla prostituzione selvaggia sperperando capitali, chi assaporava la caotica trasgressione dello scambismo pur di provare il riverbero di un’emozione. Per non parlare di quelli che soccombevano alle prostatiti. Io, invece, potevo ancora godere di un contatto umano, per quanto fosse l’ultimo sfregamento fra due condannati a morte.

Passai la notte a rimuginare sui pericoli di una vertenza sindacale. E se Agostino si fosse ribellato davvero?
«Quel locale ti sta uccidendo. Sei sciupato, ti ci vuole una novità», mi disse mia moglie a colazione.
«Che tipo di novità?»
«Secondo me dovresti candidarti alle prossime comunali».
«Cosa?»
«Io potrei pensare alla campagna elettorale, sarei bravissima. Ti ricordi il successo di quell’aperitivo che ho organizzato al Club?»
Perché voleva imbarcarsi in questa impresa? Non ci mancava nulla. Abitavamo in un villino di un pacifico complesso residenziale, un’isola felice e verde appena fuori dalla città. Potevamo andare in vacanza due volte l’anno. Forse si era stancata di non fare niente. Oppure voleva solo un po’ di prestigio. Può darsi. Ma io non ero mai stato attratto dal potere fine a se stesso. Nessun vero imprenditore lo è.
«E con quale partito dovrei candidarmi?»
«Non conosci il dirigente di quella roba, come si chiama adesso?»
Stava parlando di un mio cliente storico, dirigente di un piccolo partito di sinistra che aveva cambiato nome non so quante volte.
«Tu sei di sinistra, no?»
«Certo che sono di sinistra! Ma con quelli non avrei nessuna speranza di vincere».
«Chi può dirlo? E comunque, male che vada ti sarai fatto una po’ di pubblicità. Tanto di guadagnato per il locale».
Non mi convinse. Avevo troppa paura di perdere. E poi erano secoli che non bazzicavo l’ambiente politico romano. Avevo perso interesse nei confronti delle sorti del mondo. Avevo smesso di leggere i giornali e di andare a votare.

Dopo colazione andai all’Impasse. Invece di controllare le buste-paga decisi di dare una mano in sala. Erano anni che non facevo il cameriere, ma quel giorno avevo voglia di sporcarmi le mani.
Cominciai a prendere gli ordini. I ritmi erano cambiati rispetto a quando lavoravo io. C’era un ricambio più veloce. Dovevamo essere rapidissimi per non esasperare chi era in coda per un tavolo. I turisti erano simpatici, ma si faceva fatica a instaurare un vero rapporto.
A fine turno ero distrutto. Mi sedetti in fondo al locale, mi tolsi le scarpe e presi a massaggiarmi i piedi sulle sbarre dei tavoli.
«Ho saputo che Agostino vuole andare al sindacato».
Ernesto era il mio socio. Si occupava del cibo e del vino ma aveva un difetto: era isterico, si infuriava subito, e per questo i dipendenti non lo sopportavano.
«Bel ringraziamento. È una vita che gli regaliamo i soldi. In un altro posto l’avrebbero mandato via a calci in culo».
«Secondo te non lavora bene?»
«Guarda, è già tanto se dico che lavora. È lento. Non sorride. Si dimentica i seguiti».
«Forse si comporta così perché non lo stimoliamo. Forse dovremmo pensare a degli incentivi».
«Baian, sono quarant’anni che questo posto funziona così. Finché sarò tuo socio mi opporrò sempre a qualsiasi aumento o a qualsiasi incentivo. Sempre! Soprattutto se si tratta di Agostino».
«Allora sai che ti dico? Licenzialo! Forza, licenzialo in tronco se hai le palle!»
Urlai. Persi la calma. Di solito era lui quello irascibile, invece avevo davvero sbroccato, come dicevano i giovani.
Mi misi in macchina e cominciai a guidare senza meta. Ero nervoso. Mi vennero in mente i tempi dell’Università, l’epoca in cui io, Agostino ed Ernesto eravamo un trio molto affiatato.

Nel 1968 ero iscritto a Filosofia e frequentavo una comune. L’ho detto che sono di sinistra, no? Nella comune incontrai Agostino, che era una matricola.
Agostino mi fece subito simpatia e cominciai a prestargli i miei libri preferiti. Passavamo interi pomeriggi a discutere di politica, di letteratura, di arte. Tra le altre cose si interessava di teatro, e un giorno mi disse che un regista suo amico cercava un attore per una piccola parte. Quel regista era Ernesto. Lo spettacolo era La cimice di Majakovskij, un testo russo del periodo sovietico che poi non ho più sentito. Baian era il mio personaggio. Non ricordo bene quali fossero le sue caratteristiche e la sua funzione all’interno della storia. Ricordo soltanto che a un certo punto Agostino, che interpretava il protagonista, mi chiamava Compagno Baian. Da allora tutti mi chiamano così.
La mia brevissima carriera teatrale si concluse con quello spettacolo, ma è grazie a Majakovskij se sono diventato un ristoratore. Infatti, pochi giorni dopo il debutto, Ernesto e Agostino mi proposero di fondare un’osteria. Io accettai. Sembravano i soci giusti. I genitori di Ernesto avevano avuto una trattoria a Trastevere. E poi c’era l’idea di Agostino. Voleva creare un posto assolutamente democratico, nello spirito dei nostri ideali, con una rotazione giornaliera in cui tutti i lavoratori avrebbero svolto ogni mansione, dalla cucina alla contabilità.
Una volta il centro di Roma era un luogo infame e poco frequentato. I prezzi dei locali erano abbordabili, e così trovammo un vecchio Vini e Olii dietro piazza Navona. Ristrutturammo il bellissimo bancone di marmo dell’Ottocento e cominciammo a servire pranzi a mille lire, primo, secondo e contorno più un quartino di vino, aspirando a una clientela di studenti e operai. Ovviamente la cucina non era granché, la turnazione obbligatoria non dava garanzie, ma l’atmosfera era vivace e presto si creò un giro di affezionati.
Il giochino durò qualche anno, il tempo di finire gli studi. Poi arrivarono i Settanta. Avevamo accumulato una discreta esperienza e dovevamo decidere cosa fare da adulti.
«Questo locale non ha futuro dal punto di vista commerciale. Dobbiamo cambiare», esordì una sera Ernesto.
«Io invece continuerei così. Offriamo cibo e socialità per poche lire alle classi meno abbienti», fece Agostino.
I due, che erano all’origine del sodalizio e che per primi mi avevano proposto l’affare, adesso si trovavano divisi.
«E tu? Tu che ne pensi, Baian?»
Passavano gli anni. Gli studenti si laureavano e trovavano lavoro. La promiscuità dei figli dei fiori avvizziva, mentre i matrimoni creavano diaspore all’interno delle comitive più affiatate, in barba al sesso libero professato un tempo. Noi eravamo andati ben oltre le nostre possibilità, ma era arrivato il momento di ragionare da imprenditori.
Questa era la mia posizione. Eravamo due contro uno. Agostino ci lasciò dopo quel confronto. Io ed Ernesto migliorammo l’offerta del vino, assumemmo un cuoco professionista e dell’idea iniziale mantenemmo solo la quasi totale assenza di gerarchie.
Da lì in poi fu tutto in discesa. Il centro di Roma prese ad animarsi e i clienti si fecero sempre più numerosi.
I vecchi comunardi passavano le notti a diluire la lotta di classe in litri e litri di Dom Bairo. Non riuscivano a rassegnarsi: dov’era andata a finire tutta quella ferocia nei confronti del capitalismo? Cercavano una risposta camminando sui gomiti per il locale, come se le briciole di quell’odio sociale si fossero incastrate sotto i tavoli e negli angoli più remoti delle madie. Smascellavano che la rivoluzione sarebbe arrivata presto e che dovevamo prepararci a un radicale cambiamento dei meccanismi di profitto.
Ma quei pochi che ancora lottavano davvero non venivano più. Anzi, ci odiavano. Dicevano che c’eravamo venduti, che eravamo diventati privilegiati. Agostino era uno di loro.
Lo persi di vista per dieci anni buoni. Tornò a metà degli anni Ottanta, implorandomi di dargli un lavoro perché la Storia con la esse maiuscola l’aveva sconfitto.

Dopo ore e ore di guida pensando al passato e alle origini di tutto, mi ritrovai nella zona Est, in quella parte di Roma che odorava di spezie e immondizia. In quegli anni le periferie erano state prese d’assalto da stormi di gabbiani affamati. La loro vista mi inquietò. Cercai il parchetto dove sapevo che Agostino trascorreva il suo tempo libero, volevo farlo ragionare.
Quando lo trovai, Agostino alzò gli occhi dal libro nel quale era assorto, quasi spaventato.
«Cosa leggi?»
Era una vecchia edizione de L’arte di amare di Fromm. A cosa gli servisse un manuale sull’amore non lo sapevo. Agostino non si era sposato e aveva smesso di frequentare le donne da tempo.
«Non l’ho mai letto», dissi.
«Fromm è un po’ datato rispetto ai contemporanei», fece lui.
«Tipo?»
«Benasayag, Žižek, Latouche ti dicono niente?»
«No. Forse dovrei ripartire dai fondamentali».
Doveva sembrargli strano vedermi in quel parchetto infestato da loschi maghrebini. Io venivo dalla zona nord, dove campi da tennis, piscine e minigolf erano protetti da mura impenetrabili.
«Andiamo in un bar, Baian. C’è un posto carino qui dietro», mi propose.
«Non ho mai subito il fascino delle periferie, ma non sono così schizzinoso. Possiamo rimanere qui».
Sorrise. Forse ai suoi occhi ero solo un vecchio ipocrita. Ma io, pur sentendomi fuori posto, continuai.
«Penso che sia uno sbaglio idolatrare i luoghi marginali, quelli brutti e trasandati. I poveri dovrebbero vivere nei luoghi più belli delle città».
«Se è per questo, i poveri non dovrebbero esistere».
«Già. Ma idolatrando la povertà un po’ ci si condanna alla miseria».
«Quindi per te ognuno sarebbe artefice del suo destino?», mi chiese facendomi posto sulla panchina arrugginita. «È questo che pensi?»
«Certo. Noi siamo ciò che vogliamo. Almeno, possiamo diventarlo».
«Sarebbe interessante approfondire l’argomento, Baian. Ma dimmi la verità: non sei venuto fin qui per parlare di filosofia e di politica, giusto?»
«Giusto».
Se c’è una cosa che conta nel mio lavoro è prendere tempo. Prendi tempo e le cose si sistemano da sole. La vita stessa è un continuo prendere tempo.
Afferrai il libro e me lo rigirai tra le mani. Poi dissi:
«Volevo aggiornarti sulla tua richiesta. Ci sono delle divergenze con Ernesto. Io vorrei accontentarti, ma lui… lui sai com’è. Vediamo se il mese prossimo si convince».
«Sapevo che avresti dato la colpa a Ernesto. Facile, lo odiamo tutti».
Era vero, stavo usando l’irascibilità del mio socio come scusa, ma non mi veniva altro.
«Lo convincerò, te lo prometto. Aspetta ancora un mese prima di andare al sindacato».
«No, Baian. Non aspetterò».
Pronunciò quel rifiuto con un sussurro. La sua voce comunicava una placida ostinazione e mi fece salire il sangue al cervello.
«Però io ti ho assunto subito quando sei tornato! Avrei potuto lasciarti morire di fame e invece ti ho assunto! Almeno un po’ di gratitudine», gli rinfacciai alzandomi dalla panchina.
«E io ti ringrazio, Baian. Del resto, ho aspettato anni prima che tu mi mettessi in regola. Credo di essermi sdebitato abbastanza regalandoti la pensione che non avrò».
«Pensi che da un’altra parte ti avrebbero messo in regola immediatamente?»
«Sempre la stessa scusa. Gli altri sono peggio di noi, quindi accontentati, accetta condizioni sempre più ingiuste».
«E poi tu non lavori bene! Dimentichi i seguiti, non sei produttivo. Potrei farti una lettera di richiamo, lo sai questo?»
Stavo parlando come Ernesto. Ernesto l’isterico. Me ne rendevo conto, ma non riuscivo a contenermi. Tuttavia lui non batté ciglio.
«Veniamoci incontro, Agostino, dissi con un tono più conciliante. «Se hai bisogno di un prestito basta che chiedi. In fondo siamo amici».
«Noi due non potremmo mai essere amici, Baian. Che tu lo voglia o no, siamo parti opposte di un conflitto insanabile. Io sono un lavoratore e tu sei il mio principale. E comunque ti ringrazio, ma non morirò di fame per seicento euro».
«E allora spiegami, perché hai questa urgenza di andare al sindacato?»
«Tu proprio non capisci. è una questione di principio. Davvero non sei più in grado di capire cosa significhi una questione di principio?»

Quell’incontro mi mise addosso un’angoscia che per un po’ mi costrinse a stare lontano dall’Impasse.
La bella stagione arrivava, sentivo il bisogno di una pausa, così presi l’abitudine di andare al Club la mattina presto, per leggere. Cominciai proprio da L’arte di amare, che il giorno del nostro incontro al parco Agostino aveva lasciato volontariamente o involontariamente sulla panchina. Lo divorai, e mi sorpresi di trovare il mio nome vergato sull’ultima pagina. Era uno dei libri che gli avevo prestato ai tempi dell’università, ma non me l’aveva mai restituito e io l’avevo completamente dimenticato, come avevo dimenticato tutte le mie letture rivoluzionarie.
Così, per recuperare, trascorsi le mattine successive in compagnia di Gramsci, Pasolini, Debord. Poi passai a Bauman, Žižek, Benasayag e agli autori più recenti. Ogni tanto mi fermavo a pensare. Alzavo gli occhi dai libri e osservavo il lusso un po’ pacchiano del Club. La piscina, il cocktail-bar perennemente deserto. Mi piaceva o no? Appartenevo a quel mondo o no?
Lessi più in quelle settimane che nei trent’anni precedenti. Poi una sera portai mia moglie a cena fuori e le annunciai che mi sarei candidato.

Quel funzionario nostro cliente storico mi introdusse al direttivo del partito rispolverando il mio impegno politico universitario e i miei successi imprenditoriali. I compagni mi accolsero con aria stanca, senza opporre resistenza ma senza nemmeno manifestare entusiasmo. La mia candidatura era del tutto ininfluente. Avremmo preso una percentuale ridicola, e già si sapeva chi sarebbe stato eletto.
Del resto, il partito era allo sfacelo. Nel 2017 il mondo stava andando da un’altra parte. Noi, i simboli, le idee: cimeli che addobbavano una nicchia grottesca. Eravamo il simulacro di una civiltà scomparsa che nessuno sembrava rimpiangere.
Mia moglie si occupò della comunicazione sfruttando le sue amicizie influenti. Aprì un profilo social, come si dice, e diffuse a tutto spiano il programma che avevo stilato: dieci punti chiari che si prefiggevano di combattere il degrado delle periferie e di migliorare le condizioni dei ceti più bisognosi. Un vero programma di sinistra.
Nelle settimane successive la campagna elettorale mi assorbì completamente. Trascuravo il locale, ero spossato, eppure mi sentivo vivo, più vivo che mai. Per la prima volta dopo anni avevo una missione. Mi piaceva peregrinare porta a porta e ascoltare i piagnistei dei pensionati. Promettevo di impegnarmi nella lotta alla gentrificazione e ai gabbiani molesti, e offrivo sempre qualche parola di conforto ai giovani disoccupati.
Un giorno, dopo una di queste visite, comprai un panino e una birra e andai al parchetto di Agostino. Mi sedetti sulla panchina, esausto e felice, e improvvisamente mi resi conto che avevo voglia di vederlo. Volevo parlargli delle questioni politiche che avevo riscoperto. Volevo dirgli che lo scambio dell’altra volta era stato prezioso e volevo addirittura proporgli di far parte del mio staff. Improvvisamente me lo ritrovai accanto.
«Perché vediamo solo le merci e non la moltitudine delle persone che le producono?», gli chiesi.
«Ciò che una società pensa di se stessa è aria fritta», mi rispose lui con il suo solito sussurro.
«E perché il parco del mio quartiere è pieno di giochi per bambini mentre questo è pieno di spacciatori?»
«Perché il parco del tuo quartiere è pieno anche di consumatori».
«Io non mi rassegno, Agostino. Quando sarò consigliere cambierò le cose».
«Baian, ti dico una cosa. Per quanto giusti siano gli slogan in mancanza di una forza spirituale e morale necessaria a sostenere la giustizia e la bellezza, tutto si riduce a una sequela di azioni vuote».
Agostino sparì, lasciandomi nell’enigma di quell’ultima sentenza. Io però avevo bisogno di approfondire, di far diventare reale quella conversazione. Adesso avevo nostalgia delle nostre chiacchierate nella comune. Lo chiamai più volte al telefono, ma non rispose. Allora feci il numero dell’Impasse.
«Non l’hai saputo?», mi disse Ernesto.

La vittima, Scalzone Agostino, nato ad Aprilia il 17/01/1949, versava litri di succo d’uva fermentato a clienti di tutto il mondo. Poi finiva il turno, e con la sua bicicletta di terza mano, sudato, con i polpacci doloranti e i piedi gonfi dopo dieci ore a trasportare interiora cotte a puntino avanti e indietro, pedalava. Pedalando schivava le buche, le camionette fetide che pulivano le strade, i tassisti a caccia, i barboni. La vittima attraversava il centro, scivolava in piazza Vittorio, superava gli archi di Porta Maggiore, quando il veicolo di uno sconosciuto, sopraggiungendo da destra a velocità imprecisata, lo urtava. Il caschetto si dissociava dal suo corpo come un’aureola, mentre i gabbiani lo portavano in cielo, rosicchiandolo come se fosse l’ultimo scarto, l’ultimo sacco di immondizia lanciato verso quella discarica di sogni che era diventato il mondo.

Corsi in ospedale. Il medico mi disse che era in coma. Poteva svegliarsi e vivere una vita da disabile oppure semplicemente non svegliarsi più. Seppi anche che ero il primo a fargli visita.
Dopo passai all’Impasse, Ernesto stava sostituendo Agostino.
«Ho parlato con l’avvocato, non dovrebbe essere infortunio in itinere. Per fortuna paga tutto l’Inail».
Il locale era affollatissimo. A stento riuscivo a sentire le sue parole.
«Ma se qualcuno si inventa che l’abbiamo spremuto? Ci fanno una bella ispezione. Spero che diventerai consigliere, così almeno ci proteggi», e poi ripartì carico di piatti sporchi e cinismo.
«Ernesto, aspetta! Dobbiamo chiudere un paio di giorni».
«No, Baian. Restando aperti diamo il segnale che bisogna reagire. Sono sicuro che Agostino vorrebbe così».
Che ne sapeva Ernesto di quello che voleva Agostino?
Poi si mischiò a un gruppo di coreani che alzavano le mani impazienti. Mi sentivo lontano anni luce da quell’andirivieni frenetico. Un venditore di rose mi urtò. Una russa malinconica si aggrappò ai miei pantaloni. Dei turchi mi chiesero del pepe squamoso e degli antichi sottaceti in salamoia, attingendo al traduttore automatico. Ero stordito. Le risate sguaiate delle americane, i canti patriottici dei francesi ubriachi, il fracasso delle stoviglie pulite, di quelle sporche, del campanello che annunciava: PIATTI IN USCITA! TAVOLO QUINDICI PRONTO!
Avanzai barcollando verso il quadro elettrico, trattenendo il respiro, confuso.
«Che hai fatto?»
Il locale adesso era al buio. I clienti si zittirono improvvisamente.
«Che hai fatto, Baian? Riaccendi subito la corrente».
Mi piantai davanti al pannello elettrico.
«Stasera chiudiamo. Ai clienti diciamo che c’è un guasto e chiudiamo».
«Il guasto ce l’hai tu in testa! Fammi accendere sto coso».
Ernesto cercò di spostarmi con le brutte. Io mi difesi strattonandolo.
«Sei stato tu, Ernesto. L’hai investito perché avevi paura della denuncia».
«Baian, tu sei impazzito. Come puoi accusarmi di una cosa così?»
I suoi occhi diventarono lucidi mentre mi teneva per la collottola. Poi finalmente mi lasciò, chiamò a raccolta i camerieri e annunciò che si stava per chiudere. Avevo vinto io.

Agostino morì poco prima delle votazioni. Dei suoi famigliari riuscii a rintracciare solo la sorella, ma poiché avevano interrotto i rapporti, fui io a occuparmi di tutto. Scelsi una bara costosa. Sotto l’imbottitura di seta nascosi il libro di Fromm. Poi organizzai il funerale nella brutta chiesa di cemento del suo quartiere. Partecipammo solo noi del locale. I suoi coinquilini inviarono una corona di fiori.
Nei giorni seguenti mi concessi a tutti i numerosi eventi mondani organizzati da mia moglie. La festa di chiusura della campagna fu l’ultimo.
«Ho invitato mezza Roma», mi disse lei raggiante.
Era vero. Mia moglie non era integra e stimabile, ma si era rivelata una splendida organizzatrice.
Il Club era pieno, e io mi lasciai assorbire dalla folla degli invitati. Nessuno credeva che potessi vincere. Per quei privilegiati sarei rimasto sempre e solo un ristoratore, per loro il mio impegno politico era l’hobby di un vecchio che si stava avvicinando alla pensione. Eppure tutti mi compiacevano e mi incoraggiavano. Una vecchia amica mi chiese cosa mi avesse spinto a candidarmi, la mia testa fece un cenno che non significava nulla.
Stringendo il quinto Franciacorta della serata mi appartai in giardino. Dopo un po’ mi ritrovai a percorrere il perimetro della piscina. Pensai che le piscine emanavano sempre una luce bellissima e che in fondo meritavano di esistere solo per questo.
Quando tornai nella zona cocktail, tutti si voltarono e mi fissarono. Una donna di mezza età ma ancora attraente, con degli occhi amorevoli e profondi, si avvicinò e mi accarezzò il viso.
«Baian, è meglio andare», disse mia moglie mentre la riconoscevo.
Ero completamente zuppo. L’amica di prima mi chiese come avessi fatto a cadere in acqua. Io le sorrisi come un ebete, gocciolando. Li lasciammo tutti lì, a festeggiarmi in contumacia, e rientrammo in macchina.
«Io lo so che non sei caduto».
Mia moglie aveva capito meglio di me quello che era successo. E per la prima volta dopo trent’anni provai stima nei suoi confronti.

Arrivò la domenica delle votazioni. Nel tragitto verso il comitato, passai accanto ai tanti cortei che bloccavano le strade. Le grida vuote dei contestatori si mischiavano allo stridere dei gabbiani, che con la stessa rapacità planavano sui cassonetti e sugli esseri umani, sulle splendide rovine e sugli obbrobri edilizi.
Al comitato mi mostrai gentile e affabile, ma quando furono proclamati i risultati, la mia elezione mi lasciò indifferente. Era stato un trionfo, eppure dentro di me si fece spazio una noia infinita. I dirigenti del partito mi riempirono di complimenti e mi proposero un ruolo più attivo. Io mi dichiarai onorato e fissai subito una riunione per la settimana successiva. Già, in quel caso non presi tempo, ma c’era un motivo: sapevo benissimo che alla riunione non avrei partecipato. Sapevo benissimo che la mia carriera politica si sarebbe chiusa lì. Quella sera andai alla Polizia e dissi che ero io l’automobilista che aveva travolto Agostino.

Marco Morana

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