La siepe

marekiaro

Marek Hamsik– Marekiaro. La mia autobiografia- Mondadori (2018), acquistabile qui nello store Mondadori

Buon lunedì, amici! Veniamo da un fine settimana davvero movimentato, tra compleanni (ancora auguri a Ippolit-web e F. Sabelli! il 30 è il compleanno di Vanni quindi tenetevi pronti!), crisi isteriche, liti indegne, incomprensioni, scenate da prima donna di ex-redattori e sofferenze futbolistiche.
Ringraziamo la FIGC e l’AIA per farci disamorare sempre di più del calcio italiano.
Ma siamo Uomini di Lettere, come sapete, e quindi è giusto non perder tempo dietro quisiquilie da villici. 
Da oggi ci occuperemo di calcio solo in senso letterario come consigliano gli amici Minimi e Morali qui. Nazionalpopolari sempre, ma con la giusta distanza dalle sofferenze e le tribolazioni proletarie. Poco male, i soldi tolti a Sky, Dazn e compagnia, li spenderemo in libri Mondadori! Avete visto che spettacolo, lo store?! Ci sentiamo come Robin Williams in Moscow on the Hudson, davvero troppi, troppi libri!

Avete notato come ci stiamo introducendo in punta di piedi, sinuosi e untuosi, nel jet set letterario? Reading, festival, slam, presentazioni, feste in terrazza e cene in piedi (non alleghiamo link perché sono eventi fin troppo esclusivi, mettete che poi si imbuca un Fly o un P. Bergamo qualunque). Siamo a un passo dall’inserimento, intravediamo la vetta (il pizzetto di Vanni Santoni). L’unica cosa che potrebbe guastare i nostri piani sarebbe l’uccisione del nostro piccolo principe Marinelli. Viva la nostra rivista piccola, piccola. Ma con un cuore grande così 💚.

Oggi con noi un gran bel racconto di Paolo Parente, vi invitiamo a leggerlo. Paolo sposa in pieno la nostra svolta antipallonara e per una volta non scrive der Pupone; il risultato ci pare ottimo.
Noi, da bravi figliocci di Roland Barthes (ciao Rolly!) scindiamo tra autore e opera, per cui non ci importa delle accuse contro Paolo e del bailamme intorno a lui.

EDIT. Ci scusiamo, il Paolo in questione era un omonimo. (Rivista significa anche dire mi dispiace, al contrario della litweb dove è tutto un infamarsi).
Ma il resto rimane: il racconto è bello e Roland ha ragione. Buon racconto.

Il giardiniere era instancabile. Potava, sfrondava, rifiniva il verde del grande giardino della villa per tutto il giorno. Io ero giovanissimo, forse poco più di un bambino. Mi impressionava la sua camminata veloce, le lame della lunga forbice, il taglio netto quasi sempre accompagnato da uno starnuto, la bottiglia d’acqua fissata alla cintola, ghiacciata in tutte le stagioni, dalla quale non beveva mai.
Erano gli anni del grande buio. Mio padre ci teneva segregati non soltanto per la nostra ricchezza. Ci faceva istruire da un prete che aveva l’ordine di non aggiungere alle parole dei testi nessuna delle sue. Un uomo rosso, sempre sul punto di scoppiare, dalle mani giganti. Riusciva a nascondere il vizio soltanto al mattino, prima che il contenuto nell’incavo della bibbia lo allentasse. Allora i suoi occhi non potevano più fingere di spostarsi, di andare da un capo all’altro delle righe immaginarie sul tomo di cartone, e rimanevano fissi in un punto mentre chissà che recitava, fino al tardo pomeriggio poco prima di andare, quando beveva ormai senza pudore: offriva, addirittura ci raccontava la sua su quanto c’era fuori.

Diceva che a trenta chilometri c’era il mare, ma il sale invischiava le case soltanto fino a ventinove. Le colline basse proteggevano il borgo dal troppo caldo e dal gelo. Il volume delle campane elettroniche della cattedrale era tenuto al minimo per non infastidire i residenti. Di sabato si teneva un mercato di cinque bancarelle traballanti.
La vita era un rossore da cattiva digestione, una macchia cancerogena sull’asfalto, una pausa da prendere, e giustamente, prima e dopo l’impegno più serio dell’eternità: per questo voltava lo sguardo nelle estreme unzioni, per questo il messale lo aveva mandato a memoria e consigliava sottovoce di non colpevolizzarsi. La sua mano scivolava con lo stesso tatto sugli occhi dei morti e sulla fronte dei neonati, stringeva la crosta di pane e così il Corpo, la talare e i seni gonfi di una donna che pure non dava retta ai dogmi, che gli lubrificava con zelo la punta del glande e rilassava le pareti del retto ruotando gli occhi per la penetrazione.
Non c’erano più uomini buoni, quindi neanche quelli cattivi, e qualcuno se ne accorgeva molto presto, così rilasciando la propria natura liberamente, qualcun altro alla soglia del decadimento, intorbidendo lo sguardo e la coscienza di sé, magari conducendo la famiglia sul tetto e quasi sempre lanciandosi per ultimo. Le pozze di sangue venivano lasciate a terra per giorni, a monito di qualcosa che però si era dimenticato. Allora fungevano da simbolo del simbolo, così lontane dal senso da non significare niente. Forse un’impressione, neanche forte, una specie di formicolio alla nuca.
Non esistevano più le storie. Le madri leggevano ad alta voce le agende degli anni trascorsi, e i bambini si emozionavano al punto della manicure alle sedici e trenta giorno nove, come davanti a una cosa vera, si addormentavano per l’appuntamento rimandato all’ultimo minuto dal commercialista. Si affievoliva anche la voce narrante, sfinita dalla pratica faticosa della memoria. I grandi non dormivano più. Fissavano il soffitto tutta la notte.
Il ruggito del mare in tempesta si fermava a venti chilometri dal borgo. I giorni non cominciavano, si assentavano per brevi lassi di tempo, ritornavano senza preoccuparsi di riprendere l’incompiuto, partivano da una parola a caso, nessuno se ne lamentava.

Il giardiniere era l’unico ad accorgersi del prete che si allontanava dalla villa barcollando nella vegetazione. Le sue sopracciglia restavano immobili. Veniva ad aprire la mano profumata sulla fronte mia e dei miei fratelli. Ci sembrava buffo per le narici irritate, per la maniera di starnutire senza chinare il capo. Dopo il tramonto si dedicava alla siepe. Continuava a sfoltirla tutta la notte, eppure ogni giorno era più bella e più imponente. Quando ci convincevamo che quelle trame labirintiche avessero raggiunto il massimo splendore, allora ci sorprendeva aggiungendo un ricciolo, una virgola inaspettata che a una prima occhiata non significava niente e che poi apriva il lavoro a un numero infinito di possibilità, di interpretazioni.
Si diceva che il vecchio proprietario della villa gli avesse affidato l’unico compito di rendere quella siepe l’opera più viva e longeva della regione, anzi che lo avesse soltanto pensato, e che il giardiniere l’avesse accettato come obiettivo della propria esistenza.
Il giardiniere non smentiva le parole del prete, anche se scuoteva la testa sentendocele ripetere. Sosteneva che quello fosse soltanto uno dei modi possibili di vedere e non di certo il più conveniente. Poi elencava uno per uno i nostri privilegi, tra cui quello di vivere sotto a una campana di vetro, ma così facendo, alimentava la nostra voglia d’uscire e di mescolarci con la miseria cui eravamo sfuggiti. Lui aveva una casa, da qualche parte oltre le mura che circondavano la villa. Non vi faceva quasi mai ritorno. Ce ne parlava con la gola allagata, pensando forse a una moglie e a dei figli, sempre troppo distanti o che non aveva mai avuto.

Crebbi contemplando la siepe. Poi, prima che compiessi trent’anni, mio padre morì. I miei fratelli scapparono dalla villa. Ci riportarono le loro teste avvolte in stracci logori, quattro giorni dopo. Tutte meno quella del più piccolo, dichiarato disperso. Restammo a guardarle decomporsi, ma sparirono in un istante che colse tutti distratti. Per riempire il vuoto ci stringemmo attorno a mia madre, disegnammo un cerchio di sedie prendendola come centro. Pianse per cinque anni, fino a svuotarsi. Quando si fermò non aveva più niente della donna e della madre. Era la farcitura del suo vestito nero. Il prete provò comunque ad abusare di lei, dopo aver vuotato la cantina, mentre una badante la aiutava a sfilare le calze. Il giardiniere si precipitò nella stanza brandendo le grandi forbici, quasi mi travolse gridando di non entrare. Uscì per primo il prete, con le mani ai lati della testa sanguinante. Tornò oscillando nel mondo, come per un’alta marea. Il giardiniere teneva un barattolo lontano dal corpo, con le braccia tese. Dentro c’erano due orecchie ancora rosse su qualche centimetro di terra, e un po’ di condensa appannava la superficie di vetro.
Sparì, proprio quando la sua presenza ci sembrava indispensabile. Molti sostenevano che fosse fuggito, magari per tornare da quella famiglia immaginaria. Nonostante la sua assenza la siepe continuava a crescere e a stupire con la sua bellezza. Feci spostare le sedie attorno alla sua opera. Gli uomini e le donne di servizio obbedirono forse soltanto per il mio nuovo destino di unico erede, ma dopo qualche giorno ci raggiunse anche mia madre. Mangiavamo quello che riuscivamo ad afferrare tra quanto di vivo ci passava accanto. Tenevo gli occhi spalancati per non perdermi nessuna delle evoluzioni estetiche, o il ritorno del giardiniere dal cuore delle piante.

Trascorsero dieci anni dall’ultima volta che lo avevamo visto. Gli scettici non poterono resistere tanto a lungo e furono sedotti dalla speranza. Supponevamo la sua esistenza dall’incessante evoluzione della siepe. Così, legati all’opera da una questione vitale, non ci spaventarono i boati delle prime esplosioni.
Tornò il fratello più piccolo, con una barba lunga fino alla cintura, e disse che nelle parole del prete non c’era niente di falso, che con gli anni la situazione del mondo era addirittura peggiorata. Imperversava una guerra, presto i missili avrebbero preso di mira anche la nostra casa. Dovevamo scappare nella direzione opposta, dove il cielo non era ancora soffocato dalle nuvole nere. Ma in quel momento il giardiniere uscì finalmente dalla siepe, per nulla invecchiato, e urlò più forte delle bombe qualcosa sul grande buio. Non capii, ebbi l’impressione che avesse parlato in una lingua straniera, magari imparata lì dentro. Poi aprì un varco nell’intrico dell’opera e chiese chi tra noi volesse entrare e salvarsi, anche se a una condizione. Avremmo perso la nostra identità, ma in un modo dolce che lo lasciò senza parole e che quindi cercò di spiegare a gesti. Mia madre entrò per prima. Seguimmo con le labbra spalancate il suo lungo zoppicare. Mio fratello cercò di trattenerla ma sparì insieme a lei, trascinato dall’inconsistenza irresistibile dei suoi passi. Appena dopo entrarono tutti gli altri.

Guardai il giardiniere. Il giardiniere mi guardò. Sembrava implorarmi, con uno spostamento velocissimo degli occhi, di scappare nella direzione opposta alla guerra. Ne chiesi a voce il motivo. Allargò le braccia e sparì nella siepe, lasciandosi dietro il varco che iniziò a chiudersi lentamente.
Pensai a quel mare che stava a trenta chilometri dal borgo. Cercai di figurarmi come fossero fatti, il borgo, il mare e la guerra della quale mi arrivavano i suoni. Forse avrei potuto attraversarla, scampare ai mille modi in cui dicevano si potesse morire e finalmente conoscere le strade, inciampare in qualcuna di quelle persone tristi, fino a quel continente d’acqua salata, infinito, bellissimo, come me lo aveva descritto una volta mio padre. Ma dall’altra parte c’era la bellezza misteriosa della siepe, anch’essa senza fine perché in continuo cambiamento, alla quale avrei potuto abbandonarmi al solo prezzo della mia identità. Qualunque cosa fosse. Il varco stava per chiudersi.

Sono sicuro di aver visto quella donna inginocchiata, il neonato schiacciato contro il suo petto. Dopo ogni esplosione si disperava e si spostava di qualche metro. Per sfuggire alle bombe, pensai. Poi mi accorsi che un uomo la chiamava, rabbioso. Solo la testa spuntava da una botola. Accanto al suo volto emersero delle braccia, lo trascinarono nel buio e abbassarono la porticina rotonda. La donna esplose sotto i miei occhi, masticando un ringraziamento.

C’era una montagnola di piedi davanti all’ingresso del museo archeologico. Erano tutti stati recisi con perfetta precisione appena sotto la tibia e il buco dove alloggiava l’osso era stato richiuso con strati di pelle strappati alle gambe. Il cumulo ondeggiava. Sbucarono dal suo interno gatti scuoiati e ciechi, scapparono tutti nella stessa direzione. Li seguii, trascinato dal loro senso dell’olfatto. In campagna dilagava la primavera. Mi spinsi sempre più in fondo. Contai quindici cascine isolate, sempre una più sbiadita dell’altra. Capii il mare prima di vederlo, da come si sturarono le orecchie uscendo sullo spiazzo, e un’eco di vento mi costrinse a fare qualche passo indietro. Gettai il volto in quella polvere dorata, la sentii scivolare nei polmoni. Tossii e alzai la testa.
Quella contemplazione, un modo nuovo di scomparire, come intuire il giardiniere muoversi abilmente nella siepe che spezzava il fiato a ogni ritocco, ma senza l’impronta umana. La felicità sfondava immotivata gli ostacoli frapposti dal pensiero, l’abitudine a una percezione che scoprivo minimale. Sentii uno sparo, un colpo entrare lontano nel corpo di un altro. Mi toccai la schiena. Vidi il sangue esondare dalla linea della vita, allagare il palmo.

Scelsi di entrare nel varco, un attimo prima che si chiudesse del tutto. Dovetti abituarmi alla luce, che lì dentro era come spalmata, rossastra. Il sentiero su cui mi incamminai sembrava infinito. Veniva interrotto spesso da piccoli corsi d’acqua, allora dovevo aggrapparmi ai rami che scendevano come di proposito dall’alto, per proseguire. Più mi spingevo in fondo e più il passo diventava leggero, meno faticoso. I peli sulle braccia e sulle gambe regredivano, si accorciavano i piedi e le mani. Ringiovanivo. Arrivai dal giardiniere ormai bambino, lui come sempre uguale. Aprì le dita nei miei capelli e mi indicò un posto libero attorno al focolare.
In un mondo che poteva divampare così in fretta, aveva acceso un fuoco. Tra i bambini che se ne stavano seduti ad osservarlo non mancava nessuno. C’erano mio padre e i miei fratelli morti, mia madre, gli uomini e le donne che lavoravano in casa nostra, perfino il prete con ancora le orecchie ai lati della testa. Tutti con le dita nel naso, o con la bocca aperta ad aspettare qualcosa. Il giardiniere andò a sedersi sul fuoco e cominciò a raccontare. Disse proprio “c’era una volta” e scese dal soffitto dell’opera che ci racchiudeva, che perfino adesso modificava le sue sembianze e chissà com’era bella vita da fuori, un sonno irresistibile. Prima di chiudere gli occhi feci in tempo a osservare i volti degli altri. Sorridevano, sembravano felici. Poi crollammo, l’uno sulla fronte dell’altro.

Paolo Parente

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