Campetti rossi, ragni neri

Care lettrici, gentili lettori,
dopo tre mesi di caos e confusione Verde ritrova finalmente nel Commissario una guida solida e sicura, non avete più nulla da temere (la pacchia è finita). Oscureremo dal blog tutto quello che abbiamo pubblicato dal 31 marzo scorso, ringraziamo Luca Mignola che ha silenziosamente retto la rivista negli ultimi tempi (adesso si può dire, #g_ra-ziE *L[uc]), salutiamo Stefano Felici che non apparirà mai più sulle nostre pagine, e adesso? Che cos’è la fase tre di Verde? Che cosa dobbiamo aspettarci dopo l’8 giugno? In poche parole: solo racconti, niente più #polemichette, meme né autori toscani, basta Firenze e ammiccamenti a presunte scenicchie, ritorno al reading e al cartaceo, una nuova pazzesca rubrica trap intitolata ItaliansSCOOTERONInonFictionsDEGRADOLIsBROOOMBROOOMBROOM, un nuovo scintillante Gran Consiglio di redazione (con Sylvie Contoz, Alessio Mosça, Paolo Palermo, Luca Carelli, Valerio Martelli e Luigi Gaggiolo) e nuove penne giovani e brillanti.
Giulia Maria Zoratti, a esempio: classe ’95, nata a Gemona del Friuli, studia Neuroscienze all’Università di Trento, è stata pubblicata nelle antologie di un paio di concorsi letterari e con Campetti rossi, ragni neri è per la prima volta su Verde. Sintesi grafica: Pink Lodge
Stasera saremo qui, nei prossimi giorni vi spiegheremo bene questo. Ciao, buon lunedì, restiamo umani (insieme, possiamo farcela).

L’Edipo re veniva sbatacchiato qua e là nello zaino da settimane, portato sempre in giro con la fiducia di poterlo leggere, prima o poi, mentre in realtà la testa era totalmente e irrimediabilmente altrove. Ci pensò. Cosa ci faceva lì, con i pantaloncini bianchi addosso, con la canottiera sudata attaccata alla pelle, con la fascetta nei capelli e la racchetta in mano, quando avrebbe voluto solo starsene in camera sua con il libro. E invece erano tre settimane che non faceva altro che giocare a tennis, e altre tre settimane lo aspettavano. Suo padre lo aveva mandato in ritiro in una casa troppo distante dalla città, abitata solo da lui, suo fratello Alberto, maestri di tennis e altri ragazzi con la sfortuna di avere genitori abbastanza ricchi da potersi permettere di mandarli lì. Però nella casa del tennis avevano un problema: ragni che venivano dagli alberi e si infilavano in ogni angolo. C’era una piccola invasione, così dicevano.

Iniziava a piacergli giocare a tennis perché il campetto non era una delle zone infestate, o per lo meno quando ci passava un ragno lo vedeva stagliarsi sulla terra rossa. Forse il piano di suo padre si stava per realizzare. Suo padre, quello che passava le giornate ad insegnare all’Università e poi la sera, al tavolo della cena, gli diceva che un figlio grasso non lo voleva e che poteva leggere tutti i libri del mondo ma con quella pancia sarebbe sempre stato una delusione. Per finire il discorso aggiungeva un mens sana in corpore sano, come per trovare una giustificazione culturale al suo disprezzo per il peso di Giacomo. E allora via, sul campetto rosso, in mezzo alla montagna e in mezzo al nulla. Già che ci doveva andare Alberto – il piccolo prodigio di famiglia, promessa del tennis – ci avevano spedito anche lui (era davvero stufo di vedere tutti strabuzzare gli occhi quando diceva che erano imparentati). I ragazzi che partecipavano a quelle settimane di ritiro erano pochi, li dividevano in due gruppi: talenti (Alberto) e ragazzi grassi i cui genitori cercavano un modo elegante di far dimagrire, anche chiamati principianti (lui).

Giacomo però aveva sempre avuto paura dei ragni. Gli facevano orrore, con quelle zampette pelose e lunghe. Non ne poteva più di ritrovarseli ovunque. Continuava a sobbalzare, pensando di averli addosso. Ce ne era uno che viveva ormai da parecchio proprio sul soffitto sopra il suo letto, ma non aveva il coraggio di spostarlo. Chiese all’inserviente quando si sarebbero decisi a fare qualcosa. «Devono portare le trappole, il veleno…» non si sapeva niente.

Le giornate erano tutte simili le une alle altre: allenamenti sul campo, allenamenti da soli, allenamenti a due, tornei, l’Edipo re, sempre in balia degli eventi, ad aspettare di essere letto durante qualche pausa, e poi rimesso sul comodino ogni sera, ancora mai nemmeno iniziato. L’unico momento che Giacomo aspettava con ansia era il sabato sera: i maggiorenni avevano il diritto di allontanarsi da soli per andare nel paese vicino, dove la principale attrazione era un piccolo bar che aveva il nome della via in cui stava ed era frequentato principalmente da quelli che Giacomo chiamava montanari. Già dal giovedì non riusciva a pensare ad altro che a quell’uscita: almeno si sarebbe potuto allontanare per un attimo da Alberto, con cui era costretto anche a condividere la stanza, e dai ragni.

Quella settimana andò al bar con Camilla, una ragazza sovrappeso vicino al quale nessuno voleva stare perché arrivava ultima a tutti i tornei e perché aveva l’abitudine di bere troppo durante quei sabati.

«Sediamoci insieme a parlare di uomini… Ma perché la gente si chiede se esistono ancora le relazioni? Hm? Un computer dovrebbe cancellare millenni di evoluzione? Sì perché gli scienziati dicono che è solo per l’evoluzione, Darwin, la teoria dell’evoluzione, che noi insomma scopiamo, facciamo l’amore, quello! Ci tocca riprodurci».
Giacomo guardava la ragazza che continuava a parlare da sola e pensava a quanto avrebbe desiderato bere un drink decente. Invece si era concesso solo una birra, tanto per andare sul sicuro. Le cose non sarebbero potute andare poi così male, con una birra.
«Ti manca casa?» chiese Camilla, sbagliando a interpretare il suo silenzio.
«No» disse lui ridendo, «sto benissimo da solo».

In effetti Giacomo si riteneva piuttosto esperto in fatto di solitudine. Soffriva di insonnia, e questo voleva dire molte ore in presenza soltanto della sua stessa soffocante compagnia. Però in fondo in quello un po’ barava: gli piaceva guardare le finestre del condominio di fronte dove c’era un appartamento con la luce sempre accesa. Quando Giacomo guardava là si sentiva tranquillo, forse non era l’unico sveglio.

Pensava spesso alle sue solitudini e le categorizzava, non era un compito facile: ne aveva mille tipi, quella con la musica, quella a occhi chiusi, quella a una festa. In Camilla quella sera vide un po’ di se stesso, forse la solitudine della ragazza era un po’ nel bicchiere, un po’ nella bilancia con cui si pesava ogni mattina, e un po’ anche nelle stesse labbra carnose di Giacomo. Lui pensò di baciarla lì nel bar in mezzo ai montanari perché quando rideva era carina, ma poi lei vomitò e quando finì di vomitare tornarono alla casa del tennis, con i suoi ragni. Andò in camera e trovò Alberto che stava già dormendo, la racchetta riposta con cura nella custodia di fronte al letto. Come se fosse un peluche.

Entrò in bagno per lavarsi i denti. Afferrò lo spazzolino e si accorse di una macchia nera proprio sulle spatole. Lo lasciò cadere atterra e un ragno fuggì sotto il lavello. Il giorno dopo evitò Camilla.

«Ma state facendo qualcosa per questi ragni?»
«Il problema è assolutamente sotto controllo. Finestre chiuse ragazzi, finestre chiuse».

Giacomo non sapeva cosa voleva dire essere nati normali, aveva una base sbagliata, o almeno così pensava mentre stava sul campetto rosso, a correre di qua e di là con i pantaloncini che gli svolazzavano intorno alle gambe. Domenica era il giorno del torneo singolo settimanale. Perché non ne avevano abbastanza, di quei dannati tornei, pensò. Camilla non stava proprio benissimo dopo la serata al bar, ma ce la mise tutta per stracciarlo, e ci riuscì alla grande. Non fu ultima per una volta. Peccato che la pallina del match point finì proprio in faccia a Giacomo. L’occhio prima si arrossò, poi lacrimò e poi si gonfiò, tanto da socchiudersi.
«Vuoi chiamare a casa?» gli domandò un istruttore.
«No» rispose lui, ma dopo cinque minuti si ritrovò con la cornetta in mano.

«Stai dimagrendo?» chiese suo padre, al telefono.
«Siamo già a tre chili».
«Allora resti lì, abbiamo pagato».

Giacomo biascicò che non ne poteva più di quel posto pieno di ragni e di tennisti, che voleva tornare a casa e gli faceva male l’occhio.
«Prova a essere un po’ come Alberto, una volta tanto. Lui lo preferisco. E stai più attento alla faccia» rispose il padre, e riattaccò. Mens sana in corpore sano.

Quella sera l’Edipo re finì dritto nel cestino: tanto quella roba greca non l’avrebbe mai letta, forse era troppo noiosa. Nel bidone trovò una degna compagnia, formata da fazzolettini con ragni spiaccicati all’interno. Erano le nove, e poteva vedere dalla finestra che Alberto era ancora sul campetto a esercitarsi contro il muro. Insopportabile. C’era anche Camilla, seduta sul terreno rosso a godersi il fresco della sera. Poi Giacomo notò un ragno che camminava sul muro e decise che non voleva più avere paura, lo prese in mano e lo schiacciò tra le dita. Le zampette sembrarono vibrare, si agitarono. Percepì un morso che gli avrebbe lasciato un segno rosso per qualche giorno e poi si ritrovò la pelle impiastricciata da interiora verdastre. Aveva osservato con attenzione e piacere quelle estremità sottili che cercavano di correre via: ora erano immobili.
Camilla gli fece segno di raggiungerli.

Giulia Maria Zoratti

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