GATTINI™#34: Uccidere Hitler

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Federica Rodella

Andrea Vargas non legge Verde, altrimenti non ci avrebbe inviato un racconto per la “vostra mitica rubrica del venerdì” (SIC). Oppure Marco Vargas ci legge dal passato, e allora Uccidere Hitler è finito tra i nostri GATTINI ibernati a settembre. D’altronde, se Anna Vergas avesse davvero una macchina del tempo, saprebbe qualcosa più di noi sulla polemichetta che ha rischiato di chiudere la nostra rivista e di fare collassare la scenicchia e ci avrebbe inviato il contributo definitivo al dibattito. Che Lorenzo Vargas non ci abbia inviato nulla significa che dobbiamo scavalcare quota 20 e riconvocare l’assemblea? Quale percentuale di distopia è possibile individuare in questa prospettiva? Ombelicale, speculativa, immanente, trascendente? L’uomo o l’animale? Ci sarete questa sera alla Libreria Assaggi (San Lorenzo, Roma, qui evento FB) per la presentazione del romanzo di Alfredo Zucchi (sì, lui, il Sadrazam di Crapula)? Noi si cercherà di disturbarla in amicizia e ammirazione. Vi aspettiamo. E ringranziamo con riconoscenza Federica Rodella, che ci saluta qui.

Alla fine pare che qualcuno abbia davvero viaggiato nel tempo per uccidere Adolf Hitler.
Una cosa alla Svastica sul Sole, storie di realtà alternative, libri che sembrano romanzi scritti come articoli di giornale, che poi si scoprono essere davvero articoli di giornale provenienti da un’altra linea temporale. Una vicenda appassionante, ve lo assicuro, ma di scarsa rilevanza per i fatti qui raccontati. Del resto, se la spontanea apparizione sugli scaffali di godibili romanzetti di fantascienza come meccanismo di compensazione quantistica per il collasso delle vecchie versioni dei fatti, la scienza dei viaggi nel tempo è una pinzillacchera impiegata nei più banali frangenti della vita quotidiana. Perché ripetere l’ovvio?

Sta di fatto che Amedeo Sergiotti, di anni 24, pieno di speranze e ideali, dottore in filosofia teoretica, decise di investire le oblazioni ottenute in occasione della laurea in una comoda e maneggevole macchina del tempo di fabbricazione vietnamita; un marchingegno di pregevole fattura, dalle sembianze di sbarazzina bombetta in scamosciato ocra, all’interno della quale cinguettava un minuto piatto di circuiti e l’interfaccia utente.

«Madre, ho comperato una macchina del tempo. Credo che andrò a prevenire l’avvento del nazionalsocialismo».
«Dopo tutte quelle raccomandazioni su come non si debba cambiare la storia tu vai e previeni il nazionalsocialismo?»
«Si, madre. Tutto il dolore della seconda guerra mondiale poteva essere evitato. Me ne sono reso conto durante i miei studi e anzi, sono costernato che nessuno ci abbiamo mai fatto caso».
«Fai attenzione alle reazioni a catena, un quadrisavolo di tuo padre era tedesco, vedi di non mettere in mezzo niente».
«Certamente, madre».

Cosse frettoloso in padella due uova, mentre leggeva le istruzioni per l’utilizzo della macchina del tempo. Senza voler sminuire un mirabile lavoro di cronoingegneria, assomigliava pericolosamente a quello di un forno a microonde. Amodeo si servì l’abbondante cotoletta di maiale sintetico su un vecchio piatto di ceramica a fiori e mangiò con gusto, cullato dalle chiacchiere scialbe dell’oloproiettore nell’angolo. Cosa avrebbe potuto utilizzare per liberare il mondo da Renoire e dalla piaga dell’impressionismo?
Magari un coltello. Sarebbe stato tutto molto shakespeariano pugnalare un vero, inequivocabile malvagio. Alla schiena? Guardandolo negli occhi? Da adulto o già in tarda età?
Cosa gli avrebbe consigliato, sua madre, morta tragicamente anni prima in un brutto incidente d’auto?

Gli avrebbe ripetuto che la rivoluzione si fa a cazzotti sulle parti molli e non con timide carezze pedagogiche. Gli avrebbe intimato di tornare indietro nel tempo e fare un disastro, calciare ogni lattina e picchiare una persona su sei. Seminare il panico e mandare l’entropia alle stelle.

Prese la macchina del tempo e face un paio di lanci di prova. Alcuni secondi di rivoluzione francese; qualche confuso minuto di conversazione con Luis Bunuel, che gli costò circa due ore di fila, in quanto un piccolo gruppo di viaggiatori temporali era già in fila acquattato dietro il bar dove cenava abitualmente il regista. La notte parigina era di un azzurro avanzato dal giorno e riscaldato perché non si buttasse via niente. Di ritorno, Matteo ingoiò due grossi pilloloni di archeoantibiotici che gli evitarono alcune spiacevoli conseguenze mediche.
La macchina del tempo funzionava. Era un bene.

Purtroppo però la batteria non era delle migliori e fu costretto a mettere la bombetta in carica, sospendendola al di sopra di un piatto elettromagnetico wireless. Come occupare quei minuti?

Decise di fare una lunga passeggiata intorno all’isolato, per sgranchirsi le gambe ed essere più feroce e scattante quando avrebbe posto fine alla minaccia rossa. Imboccò il viale subito fuori casa, distrattamente, quando si trovò a sbattere contro un muro. Era sempre stato lì? E Matteo? Lui dov’era stato fino a quel momento?

Passeggiava cheto, tormentato dalla vaga sensazione di aver sbagliato strada. Era come se due versioni della stessa sceneggiatura si sovrapponessero, un sentimento comune nella sua realtà: la crisi da correzione di bozze. Non si poteva certo pretendere di mettere il viaggio del tempo in mano agli esseri umani e non ottenere un minimo di effetto farfalla. Si fermò ad un tabaccaio, uno degli ultimi rimasti aperti in quel quartiere. Non aveva mai fumato in vita sua. Nel suo presente, il fumo era rimasto un hobby come altri. Ci si raccoglieva in stanzette dall’arredamento caldo e opprimente e ci si soffocava in gruppo degustando la combustione controllata di questa o quella pianta. Nel chioschetto, il proprietario lo accolse calorosamente. Era giovane, con una grossa barba ben curata, macchiata di nicotina sulla mosca e al centro dei baffi. Non un capello in testa.
«Salve, cosa posso servirle?»
«Mah, qualcosa di sostanzioso. Sto andando a sparare a Odoacre per prevenire la caduta dell’Impero Romano. Voglio essere in forze».
Il grosso negoziante si sporse verso i grossi blocchi di carne tenuti al fresco sotto una teca di vetro e cominciò a tagliare spesse fette di insaccato OGM da riporre con meticolosa cura in una sostanziosa ciabatta araba. Incartò tutto e lo consegnò ad Amanda.
«Ecco il resto e buona fortuna per il suo omicidio!»

La macchina del tempo doveva essersi ormai ricaricata. Il calore del salotto la cullò verso il divano, mentre fuori risuonavano gli spari della guerriglia urbana, che scandivano le giornate. Uscire di casa s’era fatto praticamente impossibile e l’unico modo per comunicare con l’esterno o fare la spesa erano i droni di grandi compagnie di e-commerce, che solcavano il cielo silenziose e ben armate. La macchina del tempo era ancora sul tavolo dove l’aveva lasciata, in carica a fianco all’imballaggio. Non sapeva se usarla fosse la cosa giusta. Viaggiare nel tempo è un’occupazione pericolosa già per chi sa cosa stia facendo, figurarsi per lei, che aveva acquistato l’aggeggio col vecchio permesso di sua madre e stava per utilizzarlo per qualcosa di così assolutamente futile! Scoparsi Cleopatra. Tra i tanti motivi per cui si potrebbe voler distorcere lo spazio-tempo, proprio per quello doveva rischiare di finire in galera. Cristiano studiò ancora la forma di paradenti della macchina del tempo, chiedendosi come mai il designer avesse optato per qualcosa di così spartano. C’erano mille configurazioni diverse che gli sembravano più logiche. Tipo una bombetta, o una cabina del telefono. In una cabina del telefono avrebbe potuto chiamare la sua ex sul tragitto a ritroso nel tempo, per informarla di essere nei dintorni dei suoi teneri cinque anni, armato di una fotografia e di discorsi profetici. Le avrebbe marchiato a fuoco nell’anima il volto del suo principe azzurro e poi sarebbe tornato nel presente a vederla apparire sull’uscio di casa in occasione di chissà quanti anni di pacifica unione; vestita di un cappotto monacale, sotto cui nascondere un etereo bikini di coccarde da regalo. Purtroppo, però, niente telefono. Lo aveva venduto insieme al resto della mobilia per comperare la macchina del tempo, altrimenti proibitiva per le sue tasche di magazziniere con a malapena la terza media.

L’indicatore della batteria segnava pieno e Fausto afferrò la macchina del tempo, con le dita della protesi biomeccanica che ticchettavano sulla sobria superficie d’acciaio del medaglione. Il sacchetto di carta con la pistola appena comperata faceva una magra figura di fronte alla splendida sintesi della macchina del tempo. Si sarebbe sparato dritto in fronte, ma la medicina del suo tempo era a due passi dal miracolo. Il chip che portava sotto pelle avrebbe allertato immediatamente i soccorsi, se il suo cuore si fosse fermato; il defibrillatore che gli avvolgeva i precordi avrebbe continuato a muovere il sangue per ore, prima di lasciarlo a sé stesso. Non c’era modo di morire nel tempo di Fausto. Il fatto che fosse ancora lì, con tre protesi biomeccaniche al posto degli arti e due generosi terzi del cranio ricostruiti in materiale elettrosensibile, ne era la prova.
L’unica possibilità rimasta per trovare un po’ di pace era ammazzarsi da piccolo, quando gli avvoltoi coi camici bianchi non avevano ancora scoperto tutte le infallibili toppe necessarie a non far colare a picco la nave.

Daniela mise il medaglione al collo e girò la piccola manopola da cassaforte d’epoca fino alla data desiderata; stabilì le coordinate e strinse saldamente il grosso fucile d’assalto comperato per due soldi da un trafficante pelato che bazzicava le fogne sotto il quartiere. La macchina del tempo emise un gemito d’oscillatore e rachitiche saette beige le scricchiolarono attorno, mentre il salotto semidiroccato veniva sostituito dalla notte stellata di uno sperduto paese dell’allora Galilea.

Ci aveva messo un po’ a trovare la presunta ubicazione della grotta dove Maria vergine avrebbe partorito il figlio di Dio, ma ne era valsa la pena. L’ora era giusta. L’asino arrancava verso la sua posizione con Maria in groppa.
Maria e Giuseppe erano così diversi da come Daniela se li era aspettati! Due figure dall’aspetto mediocre, vestiti di cenci, visibilmente provati dalle malattie e da un viaggio massacrante. Maria non era nemmeno bianca.
Con tutta la calma del mondo, puntò il fucile d’assalto e attese di essere a tiro.
Mentre si chiedeva, sorpresa, come mai nessuno avesse mai pensato prima ad un gesto del genere, un uomo in passamontagna e tenuta militare, con una curiosa bombetta viola in testa e un distintivo a croce ricamato sul petto, stava acquattato in silenzio poco al di sopra della grotta di Betlemme. Le sparò un colpo solo, che trapassò con eleganza la nuca e le sfondò, silenzioso, il setto nasale.
Nella buia notte della Galilea, la sacra famiglia non notò a terra il cadavere in bizzarri abiti futuristici con il volto esploso da un grosso calibro, così come non notò gli altri, disseminati ad arco intorno all’accesso della grotta.
L’uomo con la bombetta e il fucile da cecchino sospirò affranto. Sarebbe toccato a lui trascinare via tutti quei pesi morti nel silenzio e ammonticchiarli senza abiti nel mezzo del deserto, dove nessuno si sarebbe crucciato per una pila di carogne.

Circa 1900 anni dopo, un Adolf Hitler bambino riposava infreddolito nella sua casa cantoniera austriaca, disturbato saltuariamente da fitti sciami di sussurri che imputava alle fate e che erano, in realtà, conflitti a fuoco tra le armi silenziate di giustizieri e vigilantes temporali.
Da qualche parte, sullo scaffale di una libreria, apparve un libercolo di fantascienza male impaginato, residuo ultimo di una linea temporale appassita.

Lorenzo Vargas

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