Ascenseur pour l’échafaud #5: Robert Mapplethorpe

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Alessia Arti, Un iguana

Robert Mapplethorpe era morto per le complicazioni dell’AIDS il 9 marzo 1989 alle 5 e 30 del mattino al New England Deaconess Hospital di Boston. «Sono un perfezionista, e le cose non sono mai perfette». La vita non lo è mai.” Ascenseur pour l’échafaud di Sergio Gilles Lacavalla, invece, lo è spesso (oggi ad esempio). Alessia Arti idem: sua l’illustrazione. Buon inizio di settimana amorevoli lettori, state attenti.

Il nero era diventato la sua ossessione. Nero su nero. La scala che porta al primo piano del Mine Shaft è nera. Nessuna insegna. All’835 di Washington Street c’è solo una freccia bianca che indica una porta rossa. Sopra la freccia c’è scritto “PRIVATE CLUB”. Oltre la porta e la scala ci sono uomini che si baciano, sopra e sotto, nei due piani, quello inferiore è più scuro, si baciano e si toccano nelle parti del corpo superiori e inferiori, si masturbano, si inculano. Alle pareti sono appese le opere grafiche omoerotiche dell’artista in incognito che si firma soltanto Rex: sono raffigurati uomini muscolosi e virili. L’immagine che fa da logo al club è quella di un minatore in canottiera e pantaloni aderenti, stivali e casco da lavoro, ha un grosso piccone tra le mani guantate. C’è una vasca da bagno in uno dei locali, all’interno c’è un uomo adagiato che si lascia urinare addosso da altri uomini. Sono vestiti di pelle nera, da finti poliziotti, da cow boy, da operai edili, camicie a scacchi, canotte e torsi nudi sotto i giubbotti. Alcuni hanno il membro che esce dalla chiusura aperta dei pantaloni, calzoni di pelle o Levi’s, altri sono senza pantaloni. Tengono il pene fuori dagli slip di latex o hanno già tolto gli slip. Certi perizoma sono aperti sia davanti sia dietro, il sedere è del tutto scoperto. Calzano stivali da motociclista. L’uomo nella vasca è nudo, ha il cazzo duro e si masturba mentre riceve l’urina dei complici di quell’azione avvolta nel nero e schizzata di giallo, hanno i sessi non ancora completamente eretti per permettersi di inondare l’uomo che viene quando un getto di urina gli irrora il glande. Sperma e urina si scontrano e si mischiano. È un’esplosione. Un geyser di liquidi organici. Poi gli uomini dai cazzi semieretti si spostano in un altro angolo del club, preferibilmente al piano più nero, i sessi si irrigidiscono fino a eiaculare in una bocca, in una mano estranee eppure così amichevoli, quanta amicizia, complicità e vicinanza è racchiusa in questi momenti di gioia e infinito. Qualcuno beve alcol e parla al bar, sotto le luci un po’ più alte di quella zona, ci si scambia carezze come preliminari. L’infinito è uno spazio nero fuori dal mondo. Uno spazio immenso che racchiude tutto il mondo. Il mondo è nell’antro nero di un culo forte. L’ano è una galleria buia che dilatandosi illumina la tua natura. Nel nero di quel buco profondo tutto va a finire. Il nero allargato dal piacere stordente in cui si infila il bianco del seme senza alcun fine riproduttivo. Il succo della tua unica reale identità. Senza altro progetto se non quello di soddisfare quel momento. La vita potrebbe finire qui, chi se ne frega. Un pugno fino al polso e l’avambraccio lubrificati opportunamente si fanno strada per raggiungere l’intestino. C’è chi ama farsi defecare addosso da quel buco nero che si spalanca con tutti i residui di un giorno finalmente finito, finalmente terminato così; un giorno liberato dal desiderio fino a poco prima trattenuto. Qui puoi non trattenere niente. Nel nero della miniera al Little West 12th Street di Manhattan, New York City, ognuno va a cercare il motivo delle proprie incursioni. Robert Mapplethorpe cercava il suo nero più nero da scopare e fotografare: scopare e fotografare sono la medesima cosa. Scattarsi un autoritratto e masturbarsi sono la stessa cosa. Si infila una lunga frusta di cuoio nell’ano e si fotografa guardando l’obiettivo.

«Cosa stai facendo, Robert? Perché non vieni a dormire, sono le tre».
Patti si era inginocchiata vicino a lui. Lui non rispondeva, incollando e colorando su un foglio di carta le figurine ritagliate da una rivista porno e da cartoline prese dai rigattieri sulla Orchard e su Canal Street. Erano figurine di freak di Tod Browning confuse a uomini nudi, marinai di Genet e motociclisti alla Tom of Finland.
Lei guardò il collage e capì che il suo amore stava dirigendosi altrove. Il Mine Shaft non aveva ancora aperto la porta rossa, ma lui era già al di là di quell’uscio. Ormai lontano da lei. Fu solo questione di tempo e avrebbe trovato il suo nero. Intanto aveva coperto le pareti imbiancate con del raso nero.
«Non parliamo più».
Il silenzio era diventato insopportabile.
Patti abbandonò quel silenzio.

Se ne andò ad abitare da una sua amica, Janet Hamill, nel Lower East Side. Si leggevano le poesie che scrivevano. Distraevano il silenzio. Patti disegnava. Quindi prese un bilocale sulla Clinton Avenue. Mentre Robert era a San Francisco a cercare quelle figurine in un corpo in carne e ossa. In più corpi. In qualcuno doveva trovarle. Al ritorno incontrò un ragazzo chiamato Terry e Terry e Robert ebbero un breve convivenza. Fu il primo segnale serio. Perché Terry non era solo un corpo. Era un flirt. Durò poco, ma quel tanto che bastava per sentire che ormai sarebbe stato sempre più difficile tornare indietro. Ci provò. Eccome se ci provò. Robert e Patti fecero un altro tentativo per salvare, o almeno prolungare il più possibile, il loro amore per l’eternità.
Al ritorno da un viaggio a Parigi con la sorella Linda nei vicoli del simbolismo, Patti lo raggiunse nel loft sulla Delancey. L’appartamento al 160 di Hall Street, dove avevano vissuto la loro storia d’amore e dove era calato tutto quel tenebroso silenzio, era un ricordo dolceamaro. Era vicinissimo e troppo lontano. Dio quanto erano pesanti quei silenzi. Scendevano sul tuo corpo e lo piegavano. Trascini i piedi. Occupavano ogni pensiero. Tutto lo spazio.
«Ho bisogno di te, Patti. Sto male».
Se l’erano giurato che si sarebbero sempre aiutati. Aiutarsi vuol dire amarsi. Robert si era beccato la gonorrea. Lui nella parte dell’Uomo da Marciapiede. Eccoli là i bei risultati. Lui non parlava, ma lei capiva che la strada verso i limiti della sua sessualità e della sua arte sarebbe diventata sempre più pericolosa. La gonorrea era stato solo un avvertimento. Una ferita di striscio. Gliela avrebbe curata. Ma puoi fare per sempre la crocerossina? La guerra è ancora lunga. Patti aveva voglia di scoppiare a piangere e affogare con lui nelle sue lacrime. Non può permetterselo: ora dei due deve essere quella più forte. Supereremo anche questa.

Robert non riusciva a mangiare per l’ascesso alle gengive e urlava e delirava per il dolore. Non si reggeva in piedi. I suoi bei capelli neri appiccicati di sudore e sporco. Nella pidocchiosa stanza dell’Hotel Hallerton sull’Ottava Avenue, l’hotel dei tossici e dei disperati terminali, dove avevano preso alloggio per quei pochi dollari che gli rimanevano fuggendo dall’appartamento sotto il Williamsburg Bridge dopo una sparatoria notturna che li aveva terrorizzati, «Meglio che lasciate questo posto», disse loro un poliziotto, Patti provò con tutti i modi che poteva permettersi a dare sollievo al suo fragile amore malato. Lo baciava sulle labbra. Una smorfia di dolore. La paura e l’incoscienza del contagio. La morfina donatale da un altro disperato come loro che si stava lasciando morire in una stanza sullo stesso lercio corridoio fu un breve sollievo. Macchie sul pavimento e sugli arti di quello spettro. All’Hotel Hallerton puoi solo sperare che la morte ti trovi un altro alloggio prima che dalla reception ti arrivi il conto che non sai come saldare. Ci vuole un medico. Anche se l’unica medicina possibile era andare là dove potevano accadere le cose, l’albergo che dà un’altra possibilità ai poveri artisti sfortunati, o un’altra illusione: il Chelsea Hotel al 222 West della Ventitreesima Strada a Manhattan. La 1017 e poi la 204 furono le stanze dove i due artisti, «Perché siamo due artisti, tu e io, vediamo e sentiamo le cose allo stesso modo, sì, siamo due artisti, Patti, dimmi che ci credi ancora», videro sbocciare piano piano la loro arte mentre recidevano giorno dopo giorno il loro amore per non lasciarlo sfiorire. Lui riprese a dormire sul bel seno di lei, magra da far paura come lui ma con il grande seno, lo accarezzava. Tutti quei capelli di Robert a coprire un suo capezzolo, li avevano lavati, il capezzolo si inturgidisce di desiderio e languore di un pomeriggio newyorkese, la mano di lui sul suo pube, il pene semirigido. Lei gli sussurrava una canzone. Notte. Lui si addormentava. Sogni di tenerezza con la sua donna, di successo, marchette in un angolo buio a San Francisco e New York, il corpo di lei e poi quello di un uomo, più uomini, più membri dritti, i volti degli uomini si confondono come i cazzi. Lecca. Succhia. Secrezioni vaginali e sperma. Al collo ha ancora le collanine che realizza e vende, è proprio bravo con le mani, piccoli gioielli che presto si toglierà.
«Tagliami i capelli. Un taglio da rocker anni Cinquanta».

Robert non ebbe più dubbi sul fatto che gli piacevano gli uomini quando, tornando a prostituirsi nell’Est Side, a volte sulla Quarantaduesima in compagnia del musicista e scrittore tossico Jim Carroll, con cui Patti ora aveva una relazione tenera e da niente, capì che più dei soldi cercava il piacere che gli davano quegli incontri. Il suo primo vero amore, il suo primo ragazzo importante, si chiamava David Croland, era un giovane ex modello della Boys Inc. ed ex ragazzo di Susan Bottomly alias International Velvet, attrice e superstar della Factory, ed era ben inserito nell’ambiente di Andy Warhol e della moda come dell’arte. Robert lo amava. Lo usava. E David si lasciava usare volentieri. Amare vuol dire usarsi. Mentre il medico del Chelsea, il dottor Herb Krohn, faceva un piercing al capezzolo sinistro di Robert, David lo teneva sulle sue gambe. La fotografa Sandy Daley riprendeva quel momento di intimità e dolore per un breve film intitolato “Robert Having His Nipple Pierced”. La stanza 1019 occupata da Sandy Daley è il set. La cinepresa inquadra David che carezza il volto di Robert. Si sposta sull’espressione di Robert tra il tormento e l’estasi. Robert aveva una camicia a righe azzurre e bianche aperta sul petto, cerca sicurezza nel suo amante toccandogli la nuca. David, a torso nudo, gli sfiora le labbra. Al collo di entrambi ci sono le collanine di Mapplethorpe. Quel piercing sembrava introdurlo alle pratiche del piacere attraverso il dolore.

Patti non assistette alle riprese, ci registrò sopra solo un suo commento poetico. Disse che la impressionava vedere il fragile torace di Robert venire bucato. Non disse che aveva il cuore in piccoli frammenti che fluttuavano come i palloncini argentati nella stanza bianca numero 1019.
Tra la Settima e l’Ottava. Tra la Diciassettesima e la Diciottesima. Il Max’s Kansas City, al 213 di Park Avenue South, era, come il Chelsea, il luogo dove potevi farti notare e incontrare chi avrebbe fatto di te una stella, baby. Due giovani di talento sono lì ogni sera.
Finita la relazione con David Croland, Robert conobbe Sam Wagstaff. Fu proprio Croland a presentare i due a una festa.
«Chi è questo?» Sam Wagstaff non riusciva a staccare gli occhi dal ritratto, fatto in una macchinetta per foto sulla Quarantaduesima, di Robert con un giaccone e un cappello della marina francese. Sembrava uscito da “Querelle de Brest” di Jean Genet.
«Vuoi conoscerlo?»

Iniziava la seconda e ultima relazione per tutto il tempo dell’eternità di Robert Mapplethorpe. Se quella tra Robert e Patti era stata la storia di due poveri amanti che avevano fatto l’amore su un materasso rimediato tra i rifiuti e in un piccolo letto di una stanza d’hotel per gli artisti del disagio e dei sogni da realizzare disperatamente, quella tra Sam e Robert sarà la storia tra un uomo ricco, bello e colto, collezionista e curatore di arte contemporanea al Wadsworth Atheneum di Hartford e del Detroit Institute of Arts, e un ragazzo di venticinque anni più giovane dall’ambizione smisurata alla ricerca solo di chi lo ami e lo protegga con il suo potere, un mecenate e un compagno sensibile pronto ad assecondare ogni sua voglia.
Sam Wagstaff: «Cerco qualcuno da corrompere».
Robert Mapplethorpe: «Be’, lo hai trovato».

Sono belli e dolcissimi i due nelle Polaroid scattate da Robert che li ritrae nudi mentre fanno l’amore. Si stringono i falli nel pugno. Robert gli sta per succhiare il cazzo. Sta per venirgli sull’addome tirato. Sono le foto del sesso e del romanticismo espliciti. Sam Wagstaff gli comprerà, dopo gli scatti di Robert con la 360 Land Camera prestatagli da Sandy Daley e con una Polaroid tutta per sé regalatagli dal curatore del Metropolitan Museum of Art John McKendry, una Hasselblad 500C/M. Quando gliela rubarono, si comprò una Graflex 4×5 pollici con dorso Polaroid per poi tornare definitivamente alla Hasselblad. Perché i collage e le foto a sviluppo istantaneo colorate sono roba passata. Ora l’aspetta la perfezione di una macchina per fermare il nero. Gli occhi grandi si spalancano di più con quell’obiettivo. Puoi vedere come mai avevi visto prima in quel nero. Puoi creare il tuo nero.

Il loft sulla Ventitreesima che affacciava sulla YMCA e l’Oasis Bar preso da Patti e Robert come studio per un centinaio di dollari al mese, dove avevano alternato le giornate al Chelsea, adesso, lasciato l’albergo di Manhattan, è diviso in due abitazioni-studio. Una porta aveva separato il loro amore infinito. Un giorno Robert la chiuse per non aprirla più. In mano ha la chiave di quella di un grande loft al quinto piano del numero 24 di Bond Street, regalo da cinquecentomila dollari del suo ricco amante.
«Stai attento, amore».

Di Larry Hunt, che aveva posato per Robert Mapplethorpe nel 1978 seduto su un divanetto vestito con un giubbotto di pelle, camicia a quadri, jeans e stivaloni con i lacci, la polizia di Los Angeles trovò al Griffith Park solo la mandibola con qualche dente. Difficile l’identificazione. Era scomparso alla fine dell’inverno del 1981, dopo essere uscito un sabato sera dalla casa di Falbrook che divideva con il fidanzato modello fetish e culturista Steven Darrow. La sua macchina fu rinvenuta parcheggiata davanti a un locale leathersex sadomaso di Los Angeles. Nessun segno di effrazione.

Robert Opel, il primo gallerista di San Francisco di Robert Mapplethorpe, fu assassinato alle nove di sera del 7 luglio 1979 nella sua galleria al 1287 di Howard Street da due uomini armati di fucile a canne mozze e automatica. I due chiedono soldi e droga, visto che si sapeva che Opel riforniva di anfetamine molti artisti. «Non abbiamo niente» risponde lui. Alla Fey Way Studios ci sono anche la socia di Opel, Camille O’Grady, e Anthony Rogers. Vengono portati sul retro della galleria dall’uomo armato di fucile mentre quello con la pistola rimane nella sala espositiva con Opel e gli intima di nuovo di consegnargli soldi e droga. «Ti faccio saltare la testa, se non me li dai», gli dice poggiandogli la canna della pistola sulla fronte. «Allora dovrai farlo, perché qui non c’è niente». Robert Opel si accascia a terra colpito da un proiettile in testa. Verrà dichiarato morto al San Francisco General Hospital alle dieci e mezza di sera. I due rapinatori fuggono con cinque dollari e una macchina fotografica. La polizia arresterà il 10 luglio Robert E. Kelly e Maurice J. Keenan mentre si apprestano a lasciare la California per la Florida. Saranno condannati all’ergastolo per l’omicidio di Robert Opel. Keenan fu l’esecutore materiale. Riuscì a fuggire tre volte dalla prigione prima della fine del processo che lo farà entrare nel carcere di massima sicurezza della contea. Si sospettò che avesse dei complici tra la polizia. In molti dissero che quella non fu affatto una rapina finita male ma un assassinio su commissione. Opel aveva già avuto problemi con la polizia. Dovette lasciare Los Angeles dopo aver protestato per la chiusura della spiaggia nudista spogliandosi e litigando con il capo del Los Angeles Police Department Ed Davis (una cosa seria rispetto all’incursione del 2 aprile 1974 al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles durante la Notte degli Oscar: Opel correva nudo sul palco mentre un attonito e divertito David Niven presentava la serata). Tra i poliziotti molti ce l’avevano con lui e quei froci di artisti che ospitava nella sua galleria: oltre a Mapplethorpe, Tom of Finland e Rex, con tutti quegli uomini vigorosi in divisa e i cazzi enormi che facevano l’amore tra di loro. Ma, soprattutto, ce l’avevano con lui, e proprio quelli della città dove ora risiedeva, per essersi esibito, il 24 giugno dell’anno precedente, davanti al Municipio di San Francisco in una performance intitolata “Il Processo a Dan White”. Dan White era un ex consigliere del San Francisco Board of Supervisors, ex ufficiale di polizia ed ex vigile del fuoco colpevole dell’omicidio del sindaco democratico della città George Moscone e del consigliere dichiaratamente omosessuale Harvey Milk. White, apertamente contro i diritti dei gay e per la difesa delle famiglia e della religione, aveva sparato ai due politici che non volevano accettare la sua richiesta di reintegro nel Consiglio di Vigilanza dopo che aveva rassegnato le dimissioni perché in contrasto con la politica progressista a favore delle minoranze sessuali dell’amministrazione cittadina. Dan White, la mattina del 27 novembre 1978, entrò negli uffici del municipio e scaricò la sua .38 Smith & Wesson sui due nemici. Fu riconosciuto colpevole solo di omicidio volontario invece che di primo grado perché venne accolta la tesi difensiva che lo voleva affetto da grave depressione. Sarà condannato a sette anni. Uscirà dopo cinque e si suiciderà il 21 ottobre 1985 con il gas di scarico della sua automobile. L’irrisoria condanna scatenò i disordini della comunità gay del 21 maggio 1979 in quella che fu chiamata la White Night Riots. Il bersaglio della furia degli attivisti per i diritti degli omosessuali sarà soprattutto il San Francisco Police Department, accusato di aver condizionato il processo a favore di un loro ex membro. Per rappresaglia la polizia in tenuta anti sommossa fece irruzione all’Elephant Walk, un bar gay del Castro District, distruggendo il locale e malmenando e ferendo chiunque gli capitasse a tiro. «Schifosi rottinculo». Allora ecco l’esibizione di Opel nei panni del “Giustiziere dei Gay” e del suo complice nel ruolo del poliziotto.
«Stai attento, amore».

Un uomo urina in bocca a un altro, sono “Jim e Tom, Sausalito” in uno scatto del 1977. “Dominick e Elliot” posano nel 1979, uno è a torso nudo, pantaloni neri, e tiene il pene dell’altro che è crocifisso nudo a testa in giù. “Lou, NYC” è del 1978, il dito mignolo della mano sinistra di Lou penetra nella fessura del proprio glande. “John, NYC”, ancora del 1978, si infila un dildo nel culo. Anche un pugno penetra nell’ano. L’esibizione dell’omosessualità in quelli che erano gli aspetti più inaccettabili non poteva che provocare a Robert Mapplethorpe guai. Anche negli ambienti gay che si definivano più progressisti. Gli omosessuali dei diritti civili considerano l’omoerotismo maschio e sadomasochista dei ritratti di Mapplethorpe un ostacolo alla loro necessità di integrazione. Quelle foto rinchiudevano gli omosessuali in un ghetto fatto di leathersex, vizio e violenza maschili. Idioti, pensava lui sempre più amareggiato dall’intolleranza di chi credeva dovesse essere al suo fianco. Dall’intolleranza di travestiti, checche e lesbiche femministe.
Patti non sapeva cose gli sarebbe accaduto, ora erano lontani da tempo, lei si era sposata nel 1979 con Fred Sonic Smith e la coppia avrà due figli, vivono a Detroit. Sapeva però che sarebbe stato prima o poi inghiottito dal nero di giubbotti e pantaloni di pelle e stivali. Il nero della pelle. Il nero verso cui lo portava la sua ambizione, la sua mai soddisfatta sete di soldi, sesso e scoperte. Sentiva che c’era un nemico nascosto in tutto quel buio. Un nemico che non riusciva a vedere in faccia ma avvertiva che poteva avere qualunque volto.
«Chi è?»
«Stai tranquilla, Patti. So badare a me stesso».

Non smise mai di pensare a lui. Con amore. Pregò per Robert senza più le sue collanine. Per Robert che aveva detto che tra Dio e Satana aveva scelto quest’ultimo. Lucifero, portatore di luce. Fotografia vuol dire scrivere con la luce.
Patti e David erano stati i suoi primi modelli. Entrambi avevano posato nudi. Sembrava che Patti e David fossero degli specchi in cui veniva riflessa la sua condizione sessuale del momento. Anche se nessuno più di se stesso avrebbe rappresentato il proprio stato anno dopo anno. Messi uno in fila all’altro, i suoi autoritratti scrivono una biografia verso il nero. Il viso progressivamente si indurisce, in uno scatto impugna un coltello, indossa il solito giubbotto di pelle. In un altro imbraccia un mitra. La stella a cinque punte terroristica gli fa da sfondo. In uno del 1985 ha le corna sataniche che gli spuntano tra i capelli. È inquietante. Anche nell’autoritratto del 1980 truccato in maniera androgina è disturbante. Bello e inquietante. Inquieto.
«Facciamo l’amore un’ultima volta?»
Non le diede il tempo di rispondere.
«Dai, scherzavo» le aveva detto Robert con un sorriso e la voglia ancora di poggiare la testa sulla sua pancia, sul suo pube, mischiare i suoi capelli alla sua peluria. È solo un momento di stanchezza e smarrimento. Come era venuto sarebbe passato. Non puoi distrarti dal successo.
Sono due adulti con il loro amore per l’eternità diviso per sempre.
Nel 1975, con l’album “Horses”, Patti Smith era diventa famosa. Lui le aveva scattato la foto di copertina.
«Stai attento, amore».
Dai, non tirarti indietro. Sali la scala nera. Nel nero la documentazione del mondo, delle pulsioni e delle soddisfazioni degli ambienti sadomasochisti è la sua grande rivelazione. «Voglio fotografare qualcosa che non è mai stato fotografato prima».

Ma il nero che cercava più di tutti a un certo punto comprese che era nei corpi dei suoi modelli di colore. I suoi Mandingo con cui scopare e scattare. A volte innamorarsi. Innamorarsi sul serio. Come di Milton Moore dal sesso massiccio e perfetto. In “Man in Polyester Suit” il suo pene sbuca rilassato dai pantaloni del vestito economico. Il “Portfolio Z” racchiude le foto dei suoi modelli e amanti neri. Il cazzo eretto di “Philip” è fuori dalle mutande bianche, i testicoli dentro. Se lo tiene con una mano. Quello di “Dennis Speight” crea un’ombra sull’addome che pare raddoppiarne le dimensioni. “Jack Walls” punta la pistola come punta il pene rigido tirato fuori dai calzoni. Ken Moody dalla schiena e i glutei perfetti. Ken Moody che non riuscirà ad avere. I muscoli sono quelli di un monumento classico. I loro sessi sono sculture da esposizione. Il corpo della bodybuilder Lisa Lyon è l’equivalente bianco di quel nero: la bellezza di una statua nelle linee di una donna. Lisa che tende l’arco a seno nudo come un’amazzone. Nuda del tutto esce dal mare come un’ipertrofica Venere, su una collina contrae i bicipiti. Tira i pettorali in studio. Lo sfondo è grigio, mette in evidenza i quadricipiti, i tricipiti, di profilo le linee spettacolari del suo fisico, nuda. Il sedere più bello del mondo. Fa indossare anche a lei pantaloni di pelle e lingerie leathersexy. In “Lisa Lyon with Gun” la ritrae che impugna una rivoltella. Le mani sono coperte da guanti a rete neri, il corpo è ancora nudo. È ancora inquadrata di profilo. Il volto è celato dai capelli. Le foto furono pubblicate nel 1983 nel libro “Lady Lisa Lyon”, con testi dello scrittore Bruce Chatwin. Furono esposte per la prima volta lo stesso anno al 142 di Greene Street, New York, alla Leo Castelli Gallery dal 5 al 19 marzo. Ormai Mapplethorpe è un fotografo ricco e famoso che espone nelle gallerie e nei musei, ritrae le star della musica, del cinema, della letteratura, della pittura e personaggi del jet set, fa foto di moda. Con Andy Warhol si scambiano un ritratto. Lisa si fa inturgidire i capezzoli con le dita. Guarda in macchina. Guarda Robert. Votato solo al nero. Non illuderti, piccola. Neanche Sam Wagstaff si illudeva. Era sempre lì, al suo fianco, pronto ad assecondare ogni suo desiderio e ad accettare i suoi numerosi nuovi amanti. Anche Robert continuava ad amarlo, anche lui accettava le sue nuove relazioni. Il nero era diventato l’esclusiva ossessione di Robert. Il pene e i testicoli di Mark Stevens adagiati pesantemente su una base di granito, il sesso bianco di “Mr. 10½” aveva anticipato le misure di quello nero da museo. Il pene e i testicoli di Ajitto escono tra le sue cosce portate su, le ginocchia alla fronte, è seduto su un piedistallo di marmo coperto da un drappo bianco, il pene sfiora i talloni e la stoffa. Cazzo da esposizione. Fotograferà anche statue di marmo. I suoi ritratti di neri sono l’oltraggio per tutti: per i bianchi conservatori e razzisti e per molti neri che vedranno in quelle foto il corpo dell’uomo di colore ridotto a oggetto sessuale. C’è qualcosa di più oltraggioso di un oggetto sessuale? Da qualunque posizione lo si guardasse, quel nero faceva paura. Il membro esagerato spaventava e ridicolizzava le dimensioni di tanti bianchi. Cervelli ristretti e cazzi piccoli. “Thomas e Dovanna” danzano stretti, lui è nudo, la sua epidermide scura in risalto con l’abito e la cute bianchi di lei.

C’era il “Portfolio Y” a calmare le acque: era la collezione di foto di fiori. Ma cosa sono i fiori se non gli organi sessuali delle piante? Non se ne esce.
«Guardate le immagini» urlava al Congresso il senatore repubblicano del North Carolina Jesse Helms. «Guardate le immagini» insisteva furibondo. Mostra la foto dell’uomo in poliestere. Ha sul suo tavolo quelle del “Portfolio X”, quello dedicato agli scatti sadomaso, e altri scatti di “negri”. «Se nessun senatore sa di cosa stia parlando, dico: guardate le immagini». Denuncia le oscenità dell’ultima mostra di Robert Mapplethorpe intitolata “The Perfect Moment” in programma al Contemporary Arts Center di Cincinnati e chiede l’incriminazione per esibizione di materiale pornografico del direttore del museo Dennis Barrie. La mostra, organizzata da Janet Kardon dell’Institute of Contemporary Arts di Philadelphia, era stata inaugurata con successo nel dicembre del 1988 nella città della Pennsylvania e ora affrontava il tour del 1989. I problemi erano iniziati dopo le esibizioni al Museum of Contemporary Art di Chicago quando la mostra doveva essere ospitata alla Corcoran Gallery of Art di Washington DC. La direttrice del centro, Christina Orr-Cahall, il 12 giugno decide di annullare la retrospettiva di 175 foto di Mapplethorpe che avrebbe dovuto aprire le porte il 30 giugno intimidita dalle proteste degli ultraconservatori della American Family Association e preoccupata di perdere i finanziamenti alle arti del Congresso degli Stati Uniti. Manifestanti per la libertà di pensiero proietteranno sulla facciata della Corcoran alcune delle foto incriminate e un autoritratto di Mapplethorpe, con il ciuffo da rocker e la Kool al mentolo tra le labbra. Nonostante i tentativi di bloccare la mostra nell’Ohio da parte di quegli altri bigotti dei Citizens for Community Values e le insistenze adirate di Jesse Helms, interviene la polizia il giorno dell’apertura e la chiude temporaneamente, dopo quattro mesi di processo a Cincinnati, Dennis Barrie, minacciato di morte con la sua famiglia, la polizia gli consigliò di girare con il giubbotto antiproiettile, viene assolto perché “The Perfect Moment” non è oscenità ma arte, mentre la mostra aveva riaperto ed era andata avanti registrando un’affluenza di pubblico mai vista. Chissà Mapplethorpe cosa avrebbe detto, cosa avrebbe fatto. Forse si sarebbe indignato, sarebbe rimasto sconvolto, o forse avrebbe sorriso soddisfatto di aver sollevato l’ennesimo polverone, quando ormai era il fotografo più stimato, nel senso di valutazione dei suoi scatti, d’America. Ma non poté reagire.

Robert Mapplethorpe era morto per le complicazioni dell’AIDS il 9 marzo 1989 alle 5 e 30 del mattino al New England Deaconess Hospital di Boston. «Sono un perfezionista, e le cose non sono mai perfette». La vita non lo è mai. Guarda come va a finire. La vita che gli girava ancora intorno il 27 luglio 1988 all’inaugurazione della retrospettiva al Whitney Museum of American Art di New York. Lui se ne sta lì, seduto su un divano, vestito con un elegantissimo smoking, più morto che vivo. Sorride, i suoi occhi grandi sono enormi e cercano di catturare gli ultimi scatti.
«Ci aiuteremo sempre». E adesso Patti come può aiutarlo?
I regali dell’addio che Robert e Patti si era scambiati furono la foto di copertina del nuovo disco di lei “Dream of Life” realizzata da di lui mentre lei gli aveva scritto i testi di presentazione degli album “X” “Y” e “Z” per il catalogo di “Perfect Moment”. Come quando tutto era iniziato si donarono le rispettive creazioni artistiche.

Il Mine Shaft era stato chiuso il 7 novembre 1985 dal Dipartimento della Salute di New York per ordine del sindaco Ed Koch. «Stanno distribuendo la morte» disse alla stampa Koch. Il Procuratore Generale Robert Abrams incriminerà sei uomini tra proprietari e dipendenti del club: Richard Bell, John Dobson, Vincenzio Caravello, John Pascarella, David Givens e John Clark con le accuse di smercio di alcolici senza licenza, evasione fiscale e cospirazione per manomettere le prove e corrompere testimoni. Richard Bell era stato un poliziotto condannato e cacciato dal NYPD nel 1973 per furto di cocaina sequestrata dai collegi. «Stavano vendendo la morte» ripeté il sindaco. Forse era proprio lì, in tutto quel nero a due piani che Robert aveva trovato l’ultima foto. Forse in un bar per negri, forse negli incontri con i suoi amanti nello studio di Bond Street. Forse, più semplicemente, nell’amore con Sam Wagstaff, che l’aveva preceduto morendo anche lui per l’AIDS il 14 gennaio 1987. L’amore è un salto nel buio. La camera oscura di Bond Street e quell’ultima foto, quella che mostra Robert Mapplethorpe in primo piano, impugna un bastone davanti a sé, il pomello è un teschio. Il suo viso è consumato dalla malattia. Il bastone è nero. Indossa un maglione nero. Lo sfondo è nero. Il nero sta inghiottendo tutto.

Sergio Gilles Lacavalla

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