Per la prima volta nella storia di Verde usciamo senza illustrazione e con sfondo nero, una precisa richiesta di Luca Marinelli. Il perché (una questione privata) lo abbiamo scoperto leggendo Libero. Luca sta bene e dopo i fasti bolognesi e fiorentini questo è il suo primo racconto da un bel pezzo, quasi un anno (ma non è stato senza far niente, anzi: la forse scissione Guida42 è bellissima ed è anche su Facebook): noi siamo molto contenti, e così speriamo di voi. ROCKMENIA! Venerdì Paolo Gamerro ci presenterà il suo nuovo vicino di casa, vi aspettiamo.
Nonno Franco aveva avuto un fratello, un tempo; e una zia che negli anni prima della guerra, il sabato, li andava a trovare al collegio di Don Bosco, o meglio sarebbe dire che andava a trovare nonno Franco, perché il fratello aveva gli occhi scuri, e la pelle scura, ed era tanto simile alla madre Olanda – che a quell’epoca non poteva piacere proprio a nessuno ebrea com’era, sparita chissà dove com’era – da far vergognare zia Chiara.
Era un’ostetrica importante lei, forse la più importante del Regno, aveva fatto partorire Donna Rachele in persona; e quanto le piaceva portare a spasso Franchino, guarda che occhi azzurri bellissimi che c’ha il mio Franchino, quanto le piaceva farlo vedere ai suoi amici, e guarda che naso, e che pelle di cera, bello Franchino mio, tutto su’ padre, e il Maresciallo Graziani sottobraccio che annuiva, e sorrideva, e che a Franchino gli prendeva sempre il gelato. Poi, in serata, zia Chiara lo riportava al collegio e puntualmente il fratello, che aveva cinque anni in più di lui, stava ad aspettarlo poggiato contro un albero nel cortile dei preti, solo – Er cocco de zia è arivato. Porello! – e sempre pronto a riempirlo di botte.
Quando il fratello che nonno Franco aveva avuto un tempo si era fatto maggiorenne, era uscito dal collegio e i due non si erano più visti. Lui era rimasto dentro ancora altri anni, fino ai diciassette, quando la zia ormai in pensione aveva potuto prenderlo in casa con lei. A casa di zia Chiara, un attico al centro pieno di quadri, cimeli dalla campagna d’Africa, regali d’alto profilo, c’era rimasto fino a che non l’avevano chiamato per il servizio di leva; c’era tornato quando la zia si era fatta avvilire dai suoi ottant’anni e ormai stanca di combattere aveva ceduto il fianco alla malattia: per accudirla – i numeri Franchino, già che scendi ricordati di giocarmi i numeri sulla ruota di Roma – le aveva preso la mano e passo passo l’aveva accompagnata all’appuntamento per lei più importante, lei che, oh quant’era religiosa! Come un padre con la figlia a quell’eterno matrimonio di luce che qui sulla terra dura il tempo di una preghiera.
Così nonno Franco era rimasto solo; la prima cosa era stata disfarsi della casa, non aveva toccato niente e vendere a poco era stato facile, persino il corno intarsiato di Graziani ci aveva lasciato dentro, lui non li voleva quei soldi: gli bastava il necessario per potersi comprare un appartamento.
La seconda cosa era stata rintracciare il fratello, che aveva visto solo di sfuggita al funerale e dal notaio per il testamento, il fratello che viveva in una zona periferica e si era fatto il suo giro. Nonno Franco era andato lì a scusarsi di tutto – questo tutto molto implicito conteneva non sapeva neanche lui bene cosa – e aveva ricevuto un’occhiata fredda in cambio, non la frattura di una parola, non la sottile incrinatura di un sorriso.
Probabile che avesse fatto la figura dell’idiota; per sua fortuna il fratello, dopo un silenzio troppo lungo, aveva anche aggiunto che se proprio non voleva togliersi dai piedi magari avrebbe potuto lavorare per lui.
Il fratello che nonno Franco aveva avuto un tempo se la passava bene; l’unico vero problema era che il suo lavoro lo portava ad avere un mucchio di debitori. Il suo compito sarebbe stato semplice, gli aveva spiegato: fare il giro, andare a riscuotere, tenere nota.
Nonno Franco aveva preso la lista e aveva cominciato, e le cose per un certo periodo erano filate lisce; quando aveva modo di trovarsi con il fratello cercava di parlargli il più possibile, anche se lui non era di molte parole, ma nonno Franco era contento così, era contento anche solo di averne per pochi attimi l’occasione.
Poi un giorno il fratello gli aveva dato l’indirizzo di un certo Claudio Materassi, che per trecentomila lire aveva comprato un divano ma gliene aveva pagate soltanto la metà; solitamente, con i debitori, si risolveva tutto molto presto con un mi scusi tantissimo signor Lai, è che credevo veramente di aver pagato, oppure non è cattiveria sa, che sono tempi difficili signor Lai, glielo assicuro: mi servono soltanto pochi giorni e, ma Materassi era un sorcio di borgata, grosso e ruvido nelle parole, nel vestiario, nei disegni che l’avevano trasformato in una tela umana.
Successe quindi che nonno Franco, dopo aver citofonato – che voi de preciso? Nun te capisco. Aspe’ che te apro; seconno piano – era entrato, aveva salito le scale, e solo dopo un paio di minuti si era accorto che il divano su cui si era accomodato, un divano di lusso con i cuscini morbidi di pelle nera, era lo stesso modello di quello che aveva lasciato nell’attico di zia Maria quando l’aveva venduto. Però a quel punto aveva già chiesto a Materassi i soldi e quello gli si era fatto sotto; l’aveva guardato dritto negli occhi – me l’aveveno detto che quarcuno me veniva a rompe li cojoni. Certo che nun se po’ sta’ tranquilli a ‘sto cristo de monno, eh? – e l’aveva gonfiato talmente di botte che quando era uscito da lì a nonno Franco era rimasta giusto la poca forza per trascinarsi, sanguinante, in ospedale.
In ospedale c’era rimasto tre giorni; il secondo giorno, il fratello che nonno Franco aveva avuto un tempo l’era venuto a trovare e gli aveva portato un pacchetto di sigarette – Pe lla deggenza – e “Tre uomini in barca”, un libretto umoristico rilegato alla buona di uno scrittore inglese. Nonno Franco gli aveva sorriso, ma il fratello non aveva ricambiato, lo guardava e ogni tanto scuoteva il capo, con le gambe appena larghe e le braccia incrociate, questa posa solenne da frate padrone. Nonno Franco, allora, non aveva avuto il coraggio di dire più una parola.
Alla fine, dopo un paio di minuti buoni che si fissavano in silenzio, gli aveva chiesto se sapeva perché Materassi l’avesse pestato; Nonno Franco aveva risposto che no, non lo sapeva, però magari avrebbero potuto, ma lì il fratello l’aveva interrotto – te lo dico io, e te dico pure chi l’ha avvertito a Materassi che saresti annato da lui. So’ stato io, e voi sape’ perché? Perché ‘r divano de zia Materassi nun l’ha comprato da noi Franco, l’ha preso dar marchese, seicentomila lire tonde che tu j’hai regalato inseme a casa, perché dovevi da buttà i milioni ar cesso, dovevi, e nun è giusto che quella casa era solo tua – e paonazzo, contratto, si era avvicinato e aveva urlato forte – e nun è giusto. Hai capito? E infine, quasi sottovoce – Hai capito?
Poi soltanto un sospiro difettoso, uno scusa distratto all’infermiera che s’era affacciata per accertarsi che andasse tutto bene e, attento a non incrociare di nuovo lo sguardo di nonno Franco, a passo svelto verso l’uscita – Aspe’, Libero! – L’aveva chiamato lui, e stava per alzarsi ancora tutto accartocciato quando l’altro s’era girato – A Franchì, e statte bbono un po’. Sei licenziato.
Da quel tempo nonno Franco non aveva avuto più un fratello, perché per tanti, tanti anni i due non si erano visti più.
Io invece zio Libero l’avrò visto tre volte da quando sono nato e l’unica che mi ricordo eravamo alla camera mortuaria per salutare nonno Franco; sedeva curvo su una sedia pieghevole fuori dalla stanza, immobile, fissava il pavimento con insistenza, era un vecchio dai lineamenti duri. Tutti eravamo in silenzio; avrei voluto parlargli, ma non ne avevo il coraggio, troppo tempo della mia infanzia a subire terrorismo psicologico su che uomo sobrio e tutto d’un pezzo fosse, lo zio; sono rimasto là a guardare altrove in attesa che dicesse qualcosa, ho aspettato finché a un certo punto non l’ha raggiunto mia madre, gonfia di pianto, che per baciarlo si è chinata verso di lui.
A passi piccoli mi sono fatto più vicino, zio Libero, zio Libero, singhiozzava mia madre, e lui l’aveva abbracciata debolmente, ché tutta la forza che aveva in corpo era comunque troppo poca; poi lo sentii, parlava piano, scandendo ogni parola, come chi per trattenere le lacrime ci deve pensare continuamente – Chiara – le disse – Franchino era deboluccio, ie lo dicevo sempre io. Però mai, te ggiuro, mai pensavo che se n’annava prima de me.
Poi con la mano tremante, si era infilato gli occhiali da sole.