I manieristi (2/2): Una notte bellissima

Maniero Bertoni

Giuditta Bertoni, Una notte bellissima

Il mese scorso I manieristi ha smesso di essere un racconto lungo molto cazzone e incompiuto e si è trasformato in un racconto lungo incompiuto che non fa più nemmeno ridere. Eravamo, per così dire, all’Officina 1 dell’Auditorium di Roma. Dopo aver schivato il poeta mui caliente Losito Cayetano (che fascisti de mierda), l‘ex blogger complottardo Karl racconta al temibile critico Juri Moria e alla misteriosa Sarah come e soprattutto dove ha conosciuto Raimondo Maniero, incompreso e misconosciuto enfant sauvage autore di capolavori quali La Parrucca di Marilyn (che fatica questi riassunti, ma sono proprio necessari? Ci leggesse qualcuno, almeno).
Per una volta, una soltanto, l’illustrazione (inedita) non è di E/P VI VI VI, ma di Giuditta Bertoniche bel regalo (inchino riconoscente).

Il sabato successivo decisi di uscire per la prima volta. Avevo sentito parlare di una festa in piazza a cui avrebbero partecipato tutti in paese. Le uniche persone che fino a quel momento avevo conosciuto erano legate alla casa e al lavoro e sembravano già stanche di me. Mi ero rifugiato lì per stare da solo, ma non ne potevo più della desolazione e del rifiuto che sentivo crescere sulla mia pelle come una di quelle infezioni che mi perseguitavano da bambino. Fu la prima delusione che Castel Sinone mi diede ma si trattava anche di una rivelazione: non avrei trovato soluzioni geografiche ai problemi che avevo.

Mi aspettavo luminarie, fuochi d’artificio e banchi imbanditi di prodotti tipici locali e mi ritrovai invece immerso in un silenzio di penitenza che provai ad associare a un colore e non mi venne in mente nient’altro che il bianco solarizzato che avevo visto soltanto in certi film di Ivan Zulueta. Doveva essere, quello, lo stesso silenzio che calava all’interno dei vulcani dopo un’eruzione, il silenzio di Pompei alla fine dei suoi giorni, ma mancavano i bambini, e fu la prima cosa che notai; mi guardai attorno, li cercai ovunque, forse erano rimasti a casa o erano scappati per non lasciarsi infettare da quella epidemia, che dall’aria colava sugli edifici e si posava come ragnatele grigie su ogni forma di vita. I vecchi si trascinavano da una panchina all’altra, indugiavano sul marmo e sul legno con i loro piccoli cani silenziosi al seguito, componevano reggimenti minacciosi che non avrebbero mai attaccato, in processione presidiavano lo scorrere dei secondi, dei minuti e delle ore, che per ogni istante trascorso gettava in quella vertigine ricorsiva il seme di un nuovo frammento senza fine.

Al centro della piazza un statua incombeva sulle sei panchine di cemento che la circondavano come gli anelli di un albero. Bastava vederle per immaginare quanto fossero scomode, ce ne erano ovunque, sembravano lettighe disposte nei punti più colpiti di un campo di battaglia, ma quelle erano le uniche vuote. Forse nessuno se ne serviva a causa di quella presenza minacciosa che dall’alto dominava ogni cosa. Il cavallo era un fascio di muscoli e nervi e nel suo sguardo, scolpita nel marmo nero, una furia irradiava la fierezza della sua posa e l’eleganza del gesto proteso: le zampe posteriori si sollevavano in aria, quelle davanti scalpitavano puntellando il piedistallo dal quale l’animale sembrava in procinto di staccarsi o meglio scivolare. La statua pencolava alla sua destra, si inarcava in una inclinazione che sembrava aumentare a vista d’occhio, volteggiava pronta all’attacco. In sella un soldato con i baffi sguainava una spada al cielo. Ripensai al sogno che avevo fatto e al mio volto che si decomponeva, mi toccai le gote con le punte della dita e le passai sulle palpebre: il buco nero che minacciava di risucchiarle si era trasferito nel mio petto. Esausto e senza respiro mi lasciai cadere su una panchina, mi allungai sull’incisione della targa coperta da strati di ruggine e erba incolta e lessi quello che mi sembrò un nome, Vittorio, e altre lettere che non riuscii a decifrare. Sfilarono davanti a me Carelli, la signora Savelli, il barista e ogni persona che almeno una volta avevo incrociato da che ero lì. I loro sguardi erano immobili in una fissità che registrava l’orizzonte come se fosse la prima volta. Nessuno mi salutò, nessuno sembrò riconoscermi: ero diventato invisibile? Indossavo una faccia diversa, forse una maschera stava cucendosi sul mio viso cambiandomi dall’interno? Eppure avevo ancora la sensazione di essere osservato. Mi voltai di scatto: non c’era nessuno. Alle mie spalle incombeva soltanto la notte, una notte bellissima, fresca e immobile, senza colori.

La donna inarcò la schiena e disse: «Sono contenta di rivederla. È qui da molto?»
Era seduta al mio fianco, ma persi il momento in cui apparve. Il modo in cui mi parlava, il tono della sua voce suggeriva una antica consuetudine che non aveva lasciato alcuna traccia in me. Ero sicuro di non averla mai vista prima.
«Da pochi minuti» risposi e presi a guardarla in silenzio.
«Quasi non la riconoscevo» disse lei. «Quanto è dimagrito! È stato via molto?»
«Che intende dire?»
«Be’, dal paese. Sono passati alcuni anni o sbaglio?»
«Sono appena arrivato, non è neanche un mese».
«Lei vuole scherzare» disse ritraendosi. Sorrideva ancora, ma adesso le sue labbra avevano preso la forma di una linea increspata. Incrociò le gambe, poggiò entrambi i gomiti sul ginocchio e portò le mani al volto.
«Credo che lei mi stia scambiando per un’altra persona» dissi.
«Lei non è Angelo?»
«Non sono Angelo».
«Mi scusi allora! Ero sicura che fosse lui».
«Mi dispiace» dissi. Le mie parole suonavano false e una parte di me temette di non essere creduto.
«La somiglianza è davvero impressionante» aggiunse. Stava studiando i miei capelli, poi passo alle mani e lì rimase a fissare le mie unghia, finché non ritrassi le dita e le portai dietro alla schiena. «È proprio sicuro di non essere lui?» insistette.
«Sono sicuro. La persona di cui parla è un altro».
«Peccato».

Dovetti rispondere a molte altre domande per convincerla e forse non riuscì a persuaderla del tutto, fatto sta che proprio quando la delusione cominciò a svanire dal suo sguardo, sostituita da un’espressione annoiata di cui mi sentivo artefice, la donna cominciò a raccontarmi di Angelo, e di come si era trasferito qualche anno prima a Castel Sinone. Fu un’apparizione improvvisa e misteriosa, disse, che scosse alcune cose e ne sconvolse altre. Si trattava di un ragazzo ben voluto in paese in virtù della sua natura solitaria, silenziosa e dedita ai sacrifici e alla fatica (dovetti fare affidamento a forze che non credevo di possedere per non protestare: non era forse un ritratto che si adattava anche me, tutt’altro che ben voluto in quella valle di risentimento e indifferenza?). Aveva trovato lavoro nella locanda in piazza, legò molto con i Carelli, i vecchi proprietari che presto gli proposero di trasferirsi al piano di sopra, in una delle stanze vuote della loro grande casa. Fino a quel momento Angelo non aveva abitato in paese, ogni mattina prendeva l’autobus da Selce. Il ragazzo diventò come un figlio per la coppia, lui non si lamentava mai, era tutto sudore, rinunce e sguardi sfuggenti, e tanto bastava a chi lo frequentava. Un giorno però successe qualcosa, Angelo sparì all’improvviso e non se ne seppe più nulla. In una sola notte i proprietari sembrarono invecchiare di dieci anni e non dissero altro, se non che il ragazzo aveva deciso di andarsene senza dare spiegazioni. Da lì a poco cominciarono a girare delle voci in paese…

«Quali voci?» chiesi risentito. Già provavo talmente tanta invidia, o forse gelosia, per una persona che neanche conoscevo e che beneficiava di un racconto così accorato come quello che stavo ascoltando, da spingermi a desiderare un finale esemplare senza redenzione.
«Strane voci. Dicerie imbarazzanti. Mi vergogno persino a ripeterle» disse lei portandosi una mano tra i capelli.
Una lunga treccia era raccolta sulla sommità della sua testa, in tre raggi concentrici disposti con precisione l’uno sull’altro. Aveva poche efelidi sul naso e una pelle lucida e abbronzata. Mi protesi per sentirne l’odore e dissi: «Così mi incuriosisce ancora di più. Mi racconti».
«Ecco, il vecchio sarto ha raccontato che prima di sparire Angelo lo aveva incaricato di confezionare dei vestiti un po’ particolari…»
«Particolari come?» la incalzai. Non sapeva di mare, come avevo sperato, ma di comune detergente da supermercato, con una punta dolciastra che non sapevo riconoscere.
Attese un attimo prima di rispondere. Poi sussurrò: «Da donna».
«E quindi?» risposi deluso. «Forse voleva fare un regalo alla sua fidanzata o alla madre».
«Giusto. Lei ha ragione, forse è così. Però vede, Angelo era sempre solo. Non frequentava nessuna ragazza e fintanto che ha lavorato qui a Castel Sinone non è mai tornato a Selce. Non credo che avesse una famiglia».
«E il sarto cosa fece?»
«Nulla».
«Che intende dire?»
«All’epoca lavorava pochissimo, era già cieco, non voleva che si sapesse e cercò di tenerlo nascosto indossando degli strani occhiali. E poi…»
«E poi?» Non si trattava di deodorante o profumo. Non proveniva neanche dai capelli. Era un odore più profondo, non sgradevole, ma penetrante.
«Le sto riferendo quello che ho sentito dire. Lo prenda con le pinze».
«Mi dica».
«Angelo diede al sarto delle misure spropositate».
«Spropositate?»
«Sì. Da uomo. E di una certa stazza».
«Magari era per una donna grassa!»
Il tono della mia voce si era impercettibilmente alterato. Mi sembrava un discorso sconclusionato e temevo che non sarebbe approdato a nulla. In quel momento mi appassionava molto di più la natura di quell’odore. Mi sembrava di non averlo mai sentito prima. Mi accostai ancora un po’ e sentii la stoffa del suo abito sfregare sui miei pantaloni.
«Le ho già detto che Angelo era ben piazzato? Le assicuro che difficilmente una donna avrebbe potuto – o voluto – indossare una gonna così grande. Ma c’è dell’altro…»
«La ascolto».
«Una notte bussarono alla porta della locanda. Era l’impresario delle pompe funebri. Aveva avuto una pessima giornata, molto lunga. Due bambini erano morti a Selce e lui era appena rientrato in paese. Era esausto, si scusò per l’orario e chiese da mangiare. Carelli era un uomo burbero e poco propenso a gesti di generosità, ma i due si conoscevano da tempo e dunque acconsentì. Andò a chiamare Angelo e gli chiese di apparecchiare un tavolo».
«Ebbene?»
«L’impresario giura che le mani del ragazzo erano rosse».
«Era forse ferito?»
«Aveva le lunette laccate. Se ne accorse quando il ragazzo gli servì il primo: quel rosso era smalto, disse. Angelo notò lo sguardo dell’impresario e ritrasse in fretta la mano. Si ritirò con una scusa e quando, più tardi, tornò per sparecchiare, le sue unghie erano pulite».

Appoggiai la testa allo schienale della panchina e rimasi così a pensare. La temperatura stava salendo, sentivo le prime gocce di sudore gonfiarsi sulla fronte e uno stordimento dovuto a tutte quelle parole prendere la forma di un cerchio alla testa. Che cosa avrei potuto dire? La donna si alzò per sistemarsi l’abito che si era leggermente sollevato ai lati: mentre si ripassava le mani sui fianchi mi sorrise e io pensai che poteva avere solo pochi anni più me. Dimenticò l’ultimo bottone dell’abito slacciato e notai una piccola cicatrice all’interno della coscia destra. Sentivo ancora l’odore, più intenso di prima. Proveniva dalla mia pelle.
Un odore dolciastro, di putrefazione…

«Allora? Che cosa ne pensa?» mi chiese.
Una goccia di sudore mi scivolò negli occhi. «È una storia appassionante, mi piacerebbe parlarne ancora».
«Sembra affaticato. Si sente bene?»
«Credo di no. Ho caldo e ho la sensazione di essere osservato, forse seguito. Le andrebbe di fare due passi?»
«Qualcuno la sta seguendo?»
«È una lunga storia, se mi fa compagnia glie la racconto. Lei come si chiama?»
«Rosaria…»
«È un bel nome. Io sono Karl. Andiamo, è una notte bellissima».

CONTINUA (qui tutte le puntate)

Raimondo Maniero 

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