
Giulfin, L’amor cieco
Ciao, è lunedì, siamo tornati da Bologna, è stato un successo, da mercoledì vi faremo leggere tutti i racconti della serata e oggi intanto pubblichiamo il cinquecentesimo articolo del blog: per una giornata da pietra miliare ci vuole un racconto da pietra miliare, dunque Lucia Ghirotti (lei) con Momento restitutivo.
L’illustrazione è di Giulfin, da oggi sarà con noi per un mese.
Siamo bellissimi, lo sappiamo, e così speriamo di voi. Buon inizio di settimana.
Patrizia si chiede perché la lascino così tanto tempo fuori dal portone. Ha dovuto premere due volte il pulsante accanto alla targhetta “dott.ssa Martina Belli – Psicologa e Psicoterapeuta”. Lo sapeva che gli altri già erano lì, li avevano fatti andare prima di lei, era negli accordi.
Lo scatto che arriva la rassicura, non le hanno neanche chiesto chi fosse, la stavano aspettando, gli impegni erano stati mantenuti, non era tutta una commedia per tenerla buona. Lei è stata puntuale, lei che è nella ragione, che è la parte lesa, potrebbe anche permettersi di arrivare un po’ in ritardo, ma non lo farebbe mai, deve mantenere tutto il vantaggio di cui gode. Certo, chi l’avrebbe voluto questo vantaggio, che le era costato l’infelicità della sua bambina, ma l’avrebbero pagata cara, tutti quanti.
L’assistente sociale aveva proposto per i genitori di quei quattro bulli, in accordo con i rispettivi avvocati, alcune sedute con uno specialista che potessero in qualche modo far emergere l’effettiva volontà delle famiglie, dichiarata in sede di conciliazione, di riparare alle carenze educative che avevano portato a comportamenti devianti e prevaricanti nei confronti di coetanei, proprio così c’era scritto nel verbale che Patrizia teneva sempre nella borsa.
Quattro mesi prima sua figlia Elisa era scappata di casa. Era tornata da scuola, non aveva toccato niente di quello che lei le aveva lasciato per pranzo, aveva svuotato lo zaino dai libri riempiendolo con i fumetti giapponesi, gli album da disegno, le matite, i colori e tutte le merendine che aveva trovato in casa. Il cellulare lo aveva lasciato sul tavolo della cucina, con lo schermo bloccato come sempre. Patrizia non aveva badato al fatto di non averla sentita per tutto il pomeriggio, era il giorno della lezione in palestra, che poi erano più le volte che Elisa non andava, diceva sempre che doveva studiare e che non era lei ad aver chiesto di iscriverla, che non le importava di dimagrire e poi, anche se fosse dimagrita, i brufoli in faccia le sarebbero restati, gli occhiali da talpa pure e anche la paura di indovinare negli sguardi degli altri lo schifo indicibile che provava per se stessa.
La madre era tornata a casa alle otto perché aveva dovuto coprire il turno di una collega che si era sentita male alla cassa del supermercato, e aveva capito subito. Dopo due giorni nei quali a Patrizia era sembrato di essere morta più e più volte, Elisa era stata ritrovata al terminal dei bus di Tiburtina, lo zaino svuotato delle merendine e gli album pieni di nuovi disegni: eroine manga con scattanti gambe lunghe e gonne corte, spiritose, ironiche e bellissime.
A scuola qualcuno aveva parlato ed era venuta fuori la storia di un video girato da alcuni compagni, d’accordo con altri due, nel quale uno di loro invitava ad uscire Elisa solo per metterla in difficoltà, registrando la sua reazione goffa ed incredula.
Patrizia aveva sporto denuncia, ma il video si era rivelato privo di contenuti particolarmente offensivi. Tuttavia il preside, preoccupato per la reputazione del liceo, si era attivato assieme agli assistenti sociali con i genitori degli autori dello scherzo, cercando di convincerli ad essere il più possibile collaborativi, per il bene di tutti.
Patrizia sale una rampa di scale e trova la porta dello studio socchiusa. Le viene incontro una donna anziana, con i capelli bianchi lunghi, raccolti all’altezza del collo in una coda di cavallo fermata da una parte e lasciata ricadere sul petto, a mischiarsi con una collana composta da forme geometriche di legno. La dottoressa le porge la mano destra e contemporaneamente le stringe una spalla con la sinistra.
«Buonasera Patrizia, bene arrivata, sono la dottoressa Belli, per comodità vi chiamo tutti per nome se non le dispiace. Mi aiuta».
«Piacere, Di Mauro Patrizia».
«Si accomodi, siamo tutti di là».
Patrizia entra guardando per terra, anche se si era preparata per un’entrata a testa alta, decisa a dare una bella lezione di vita a quegli incapaci, buoni solo a mettere al mondo mostri e a soddisfare ogni loro richiesta, riempiendoli di cose costose che lei mai avrebbe potuto comprare per sua figlia.
Lo sguardo basso che tiene per un paio di secondi le consente di vedere e valutare le scarpe di tutti, non può farci niente, era figlia di calzolaio.
Su una poltrona foderata di velluto rosso, una donna in stivaletti marroni, sembrano in capretto, roba da trecento euro, forse un po’ troppo portati, calzati da gambe sicure del fatto loro. Su un divanetto rivestito come la poltrona, i padroni di un paio di ballerine nuovissime e di hogan vissute il giusto, una coppia di sicuro. Alla sinistra del divano, sotto a una sedia rigida, che sembra essere stata portata lì da un’altra stanza, forse da una cucina, un paio di scarponcini neri da uomo proprio brutti.
Tutti si alzano per presentarsi, tranne quel cafone sulla sedia, che porge una mano, pure moscia, sembra a Patrizia.
La dottoressa spiega a Patrizia che i genitori dei tre ragazzi hanno compiuto un percorso che ha permesso loro di rivedere molte scelte educative e di prendere possesso di adeguati strumenti per trasferire ai figli modelli di comportamento corretti.
«Ora però è giusto che lasci la parola ai genitori dei ragazzi, poiché ritengo che le scuse siano una parte importante di un percorso restituivo».
Stivaletti tacco dodici parla per prima. È la madre dell’attore che ha interpretato l’innamorato. Rimane sulle sue mentre si tormenta una ciocca di capelli che qualche mese prima sono sicuramente passati per le mani di un bravo parrucchiere, ma che ora avrebbero bisogno di un bel ritocco su un’evidente ricrescita.
«Mio figlio Francesco si è reso pienamente conto della gravità di quello che ha fatto e noi genitori, parlo anche per mio marito che purtroppo è in viaggio di lavoro, non abbiamo intenzione di giustificarlo, anzi, ci sentiamo responsabili e le chiediamo scusa per tutta la sofferenza che abbiamo causato ad Elisa».
La dottoressa rivolge lo sguardo alla coppia sul divanetto per invitarla a parlare, sono i genitori del regista. Vorrebbe cominciare lei, e infatti esordisce timidamente, la voce spezzata dall’emozione con un «Cara Signora, io ancora non riesco a credere…. » L’uomo con le hogan, che non ha fatto altro che sorridere a Patrizia in modo condiscendente, ferma la moglie con un colpetto sulla coscia: «Eh no, qui bisogna chiamare in causa il contesto in cui i nostri ragazzi crescono, mica bastiamo noi genitori, questi ragazzi sono bombardati da messaggi materialistici, sessisti, razzisti, facciamo fatica a fargli passare i contenuti giusti, vent’anni di berlusconismo hanno lasciato il segno, sono cresciuti con la tv spazzatura, con il mito dei soldi e del divertimento…»
La dottoressa lo guarda seria da sopra gli occhiali e lui se ne accorge.
«Certamente… le facciamo le nostre scuse, abbiamo sbagliato anche noi genitori, per quanto possiamo fare ben poco contro questo degrado dell’immagine femminile e dell’uso del corpo delle donne che…»
Al secondo sguardo della dottoressa, l’uomo finalmente tace.
Patrizia chiede di andare in bagno. Attraverso la porta, mentre si lava le mani, ascolta una conversazione smozzicata interrotta da singhiozzi; è la madre di Francesco, quella elegante, che si era allontanata per telefonare. Pregava qualcuno di farsi vivo, perché la banca aveva chiamato per le rate arretrate del mutuo, sul conto non c’erano più soldi e lei la storia del viaggio di lavoro non poteva più raccontarla tanto a lungo a chiunque, che si tenesse pure la ragazzina con cui stava, ma almeno chiamasse il figlio ogni tanto.
Il padre della sceneggiatrice, la ragazzina che aveva concepito il copione da far recitare all’amico, parla per ultimo. Pronuncia alcune sillabe in modo strano, come fosse ubriaco.
«Patrizia, io non so cosa dire, con questa storia mia figlia mi ha dato il dolore più grande dopo la morte di mia moglie. Proprio lei, che dovrebbe avere riguardo verso i soggetti più fragili, che dovrebbe capire…Scusate io devo proprio andare, ci metto un po’ ad arrivare a casa».
Prima di alzarsi si arma di due stampelle che Patrizia prima non aveva visto, appoggiate sulla sedia. Si tira faticosamente in piedi e le porge nuovamente la mano: ora capisce perché non si era alzato prima, la ragione di quella stretta di mano incerta al momento delle presentazioni, che tanto l’aveva disturbata, e delle scarpe senza forma.
Segue un breve discorso della dottoressa sull’importanza di creare una rete educativa, al quale Patrizia non fa molto caso, impegnata com’è a ricercare nella mente le parole di cui si era armata per giorni, che le dovevano servire a riversare in faccia a quella gente tutta la sua rabbia.
Le cerca, ma non le trova più, le viene solo in mente che una volta a casa deve dire ad Elisa che se vuole può lasciare la palestra, a lei non importa che dimagrisca, cammineranno insieme e, semmai, coi soldi risparmiati le pagherà quel corso di fumetti che non serve a niente.
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