Colui che racconta

In principio fu Colui che aspetta, il racconto con cui Francesco Quaranta si unì a Verde. Poi venne Colui che ascolta, seguito dove il cameriere diventava barman. Colui che racconta è il finale di un trittico che, così Francesco, “ha richiesto tre anni e molte ore di lavoro (non sul testo) per essere completata”. L’illustrazione è di Federico Bressani. Buon inizio di settimana.

La golden hour dura a malapena il tempo di un aperitivo, persino qui nella città eterna. Happy hour decadente a base di prodotti locali D.O.P. del cazzo. Il rito è sufficiente a far innamorare perdutamente i turisti; e davvero non li biasimo: la poesia del tramonto gareggia col colore dello spritz, l’aria sa di stornelli e spiffera attraverso i secoli, spirituale e temporale brindano in convivo con i mortali.

Io, nonostante il venticello piacevole, sono avvolto in un velo di sudore e nonostante il sorriso caricato a molla, ho un sudario di apatia sugli occhi. Sorriso incompleto, si sciupa man mano che la giornata di lavoro prosegue. I muscoli del volto non riflettono soltanto i moti interiori. Possiamo allenarli, sforzarli, costringerli a raccontare una storia diversa. Dopotutto le espressioni sono armi sociali di dissimulazione, da indossare al di sopra degli scoppi primitivi e genuini: la polpa dell’animo si nasconde dietro un sottilissimo strato di trucco da clown.

I forestieri si straniscono se pronunci troppo bene la loro lingua, dico al mio collega Mario, devi mantenere un pizzico di cadenza italianereccia, dare loro quel senso di soddisfazione vacanziera per cui, tra l’altro, stanno pagando mance profumate già comprese nel prezzo. Ma Mario nella vita vuole fare l’interprete: è come chiedergli di levarsi un rene e pisciarci sopra. Tira dritto come gli pare e stranisce mezzo mondo. Mi ricorda qualcosa o l’ombra di qualcuno.

Dentro e fuori dal locale, la Babele turistica impazza fin sul lungofiume. Prendi un bicchiere dalla coppa larga, a forma di questa città, e versaci dentro decine, centinaia, litrate di altre metropoli. La mistura schiuma, straborda, ingloba e scioglie tutto. Io, Mario e i nostri simili dobbiamo sguazzare dentro questo cocktail finché non ci si corrodono le ginocchia. Corriamo come poche volte abbiamo fatto nella vita, io e la mia tribù di compagni camerieri, con il nostro bagaglio di accenti e aspettative, entrambi sempre troppo esotici.
Mario è al suo primo giorno e io vorrei spaccare con un paio di frasi quella sua propositività adamantina da diciannovenne sulla cresta dell’onda. Vorrei farlo perché ora sarei molto più tranquillo se qualcuno l’avesse fatto con me. Nessuno abbattè le mie ambizioni con i giusti argomenti al tempo della fame isterica per la realizzazione: ruminavo così tanto nei bisogni che non vivevo d’altro che di nausea.

E poi era spuntata Gabriella che mi aveva preso i pensieri a piene mani e li aveva accarezzati, Gabriella che mi aveva invitato a raggiungerla qui per la stagione estiva. Sarà divertente, aveva detto, staremo bene. Poco ci volle affinché mi chiedesse di restare ancora, fermarmi per sempre, con quella leggerezza di quando sono gli altri a rischiare.

Partito all’avventura senza lasciarmi dietro poi granché, mollato il locale del nord dove lavoravo, perché troppo periferico, finii col trasferirmi nella capitale e accettai di retrocedere a cameriere semplice. Waiter, serveur, Kellner, tarjoilija, camarero, σερβιτόρος, 給仕, giovane, caro, abbello, maschio, capo, ehi, oi. Guadagno una miseria, ma lo faccio nella capitale del mondo, no?
Nel viaggio, nella gente, nel crocevia di tutti gli itinerari, così come in Gabriella, avrei trovato delle storie, mi dicevo. Il trucco era mantenersi vivo a sufficienza per poterle raccontare. Non bastava ascoltare, non bastava raccogliere, volevo urlare in risposta: un ponte che crea contatti tra scorci e limiti, riceve e immette nel mondo. Il mondo, concetto per lo più astratto, mi si palesò ben presto sotto forma di debiti e poco altro.

Non v’è dubbio che mi muova tra scorci stupendi, favole racchiuse in un’occhiata, ponti sospesi sul tempo. Ma tutto scivola dietro all’acqua verdaccia del fiume.

La città è un falso. Come queste espressioni allegre e spensierate da turisti, come la mia cordialità di muscoli facciali allenati controvoglia. Forse il riflesso funziona anche in verso opposto: alcuni studi suggeriscono che simulando le giuste espressioni si possa ingannare persino se stessi e le proprie esperienze emozionali.

Sollevo il sacco dell’umido che ci siamo dimenticati di cambiare quando ancora aveva una massa gestibile e me lo trascino fino al vicolo dove sta il gabbiotto della spazzatura. Teoricamente è proibito portarlo fuori a quest’ora, ma qui tutti chiudono un occhio. L’intera città, il sole, la mia coscienza hanno un occhio chiuso. Lo sguardo scivola sempre oltre, in cerca di un altrove che mantenga le promesse. Dietro le facciate pregiate, nelle vie strette tra un monumento e l’altro, come quella dove sto buttando la spazzatura – angoli meno attraenti e più trascurati – qui si scorgono i punteruoli, il fasciame e le strutture traballanti di quel grande carrozzone da circo in cui è stato tramutato il centro della città. Un sorriso elastico da pagliaccio.

Chi è finito a vivere qui si aggrappa come può alle rovine, alle vestigia, alla storia, pur di succhiare sopravvivenza: tutti schiavi moderni di una cartolina sbiadita, restaurata a uso e consumo del turista che non ha tempo da perdere.
Da crocevia planetario a deviazione attraente.
Ma tu?, domanda Mario sulla difensiva, perché ti sei fatto mezza Italia per arrivare fin qua?
Capitano frasi che ti bloccano in momenti di nudità. Attimi estremi in cui le circostanze, tramite un errore, un difetto infinitesimale, scardinano la personalità, la espongono in piena vergogna. Momenti in cui l’imbarazzo confina col terrore. La mancanza di risposta assomiglia alla scomparsa di ogni soluzione. È uno di questi.

Perché la risposta alla sua domanda ormai è soltanto un nome. E le svariate idee sullo spulciare l’ombelico del mondo in cerca di esperienze originali e di manciate d’arte erano solo balle imperniate sulla storia più banale di tutte. Facile capire cosa sia successo una volta che l’innamoramento è stato sciacquato via dalle mie mani ruvide e maltrattate, via dai capelli nervosi di Gabriella e giù nelle fogne che venano strade e incubi. Altro non mi è rimasto che una stanzetta troppo costosa, affitti arretrati e un orgoglio monumentale che mi impedisce di fuggire ancora. Forse se mi salvo dall’abisso della depressione è perché mi reggo su palafitte di sorrisi scricchiolanti. Proprio come la capitale.

È Mario però a trovarmi di nuovo il filo del racconto.
Una cosa che questa città ricorda costantemente, mi dice, è che la vita non ci deve niente, perché nella vita non ci spetta niente.

Squadro quello sbarbatello che non so perché mi sta facendo la morale in controluce nel tramonto come uno degli eroi delle sue serie Netflix. Me lo immagino bello e giovane che spoglia il polso del tempo, lo azzanna e ne strappa piccoli brandelli per nutrirsi. Lo vedo lottare e sudare come un animale moderno, un animale con un obiettivo. Riscopro che pure la speranza è un muscolo da tenere allenato al di sotto delle espressioni, contro tutte le smorfie e le pieghe della stanchezza.

E d’improvviso ci sentiamo chiamare da un paio di clienti seduti in piazza. Uno di loro stappa una bottiglia, prende dei bicchieri anche per noi e dichiara la fine dell’orario di lavoro, in ogni dove, su ogni terra conquistata dall’uomo, per sempre. Scaracchiamo a terra i nostri problemi, ci rimpalliamo prese in giro e ci tamburiamo di pacche sulle spalle: nella bocca degli altri, nelle loro battute, le nostre paure diventano lanterne cinesi che prendono il vento e guadagnano quota, assieme al nostro umore, fino a scomparire oltre lo zenith. Qualcuno ci infila una sedia sotto le chiappe e ci offre da bere, i miei colleghi si mescolano con la folla e senza grembiule non li riconosco più. Non ci sono ordinazioni, né conti da pagare, ci sono milioni di dialetti e storie che si incrociano e si raccontano una all’altra. Ponti, parole, orecchie e orizzonti. Ormai è sera e so che durerà in eterno e che si vede la Via Lattea, nonostante l’inquinamento luminoso e gli scarichi, e che anch’essa porta a Roma, se ti va, e che non è vero che fuggire non serve a niente, perché ti dà qualcosa da raccontare, a Mario e a chiunque altro mai vorrà ascoltare. Avere sempre un capitolo in più, trasformare i punti in virgole e continuare a dare un senso.
Non siamo qui per nessun motivo in particolare. Ma che bello inventarlo.

 

Francesco Quaranta

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