
Foglietta, Cocoon
Lamont Coleman, la stella nascente del rap della East Coast, il gelido 15 febbraio del 1999 è lì, sulla strada a nutrire l’asfalto del 45 della West 139th Street. Non aveva mai fatto male a nessuno, ripetevano increduli gli abitanti del quartiere, malgrado facesse rime, le migliori del circondario, su stupefacenti, troie, Glock e morte. Non era un delinquente. Era un piccolo rapper buono, a dispetto del nome. Ma forse nessuno è innocente sul Lenox Avenue, neanche Big L.
Venticinquesima Rock Criminal, la rubrica di Sergio Gilles Lacavalla dedicata alle storie nere del rock e dintorni. L’illustrazione è di Foglietta (Cocoon).
Al 45 della 139th Strada Ovest, il sangue non si asciuga mai. Scorre fino all’incrocio del Lenox Avenue ed entra nel parco giochi Fred Samuel tra la West 139th e la West 140th Street, imbratta gli scivoli, le altalene e il campo da basket, ragazzi senza le scarpe giuste ma con mani grandi sognano la NBA, le aree dove si fanno le competizioni di freestyle, con certi adolescenti dagli abiti larghi che sono già dei fenomeni, e in un’onda è ancora sui marciapiedi e nella via di transito delle macchine, “il battito cardiaco di Harlem”, come è soprannominata la grande strada a doppio senso di marcia che costeggia l’isolato, è illuminato dalle sirene delle pattuglie della polizia e dagli elicotteri, i passi concitati di chi fugge, attutiti dalle aiuole intorno ai palazzi di sedici piani e mattoni rossi del complesso residenziale del Savoy Park, li segue per le scale, e di nuovo giù, verso la metropolitana, qualche stazione, poi si torna indietro, è inevitabile, è un richiamo, è il tuo territorio, il sangue continua a spandersi per finire ad assorbirsi sotto l’asfalto di Central Harlem, dove ristagna, con il suo odore persistente; si assorbe ma non si asciuga. È un monito. Un debito da pagare prima o poi. Il sangue sta lì e aspetta di rigurgitare. Sempre nello stesso punto.
La 139th che incrocia il Malcolm X Boulevard delimita quella che è chiamata “la zona pericolosa”, “dove nessuno può resistere” a lungo. Meglio sarebbe chiamarla la zona della morte. Il sangue ha memoria. In due fratelli tra i fratelli afroamericani e di malavita scorre lo stesso sangue. È la loro memoria indelebile. Del loro assassino, macchia ogni azione, fino a quando quel sangue maledetto non lo uccide. Si apre un buco in testa e si svuota il cranio. Il sangue torna a inzuppare il suolo. Si infiltra nel terreno, forma dei grumi con la sporcizia, intasa le fognature di un angolo di scarico di New York, si diluisce mischiandosi all’acqua e ad altro sangue che fluisce. Sul Lenox Avenue. E tornerà a ripetere il ciclo, statene certi. Continuando a non asciugarsi mai e poi mai. È la solita storia di faide su una colonna sonora di musica rap. “Scoppia il cervello degli assalitori […] Facciamo questi soldi, è il sogno americano. Dalla East Coast alla West Coast, sai cosa intendo, che si tratti di Uptown o Downtown”. Che si tratti del sangue chiuso dietro le sbarre di una prigione, una delle tappe obbligate prima della fossa. O che si tratti proprio del tuo, quello ancora in libertà. In ogni caso sangue continuamente alimentato a crack e soldi sporchi. Basterebbe attendere. Ma sai cosa intendo, devi pagare i tuoi debiti e subito. Tu non puoi? Bene, per ora mi basta lo stesso sangue in diversa carne, è colpevole anche lui. O forse sei proprio tu. In ogni caso, bang! bang! bang! … Per nove volte.
Una macchina arriva, rallenta, si affianca e sei morto. Il sangue è una pioggia rossa, schizza ovunque, sui cancelli, sugli alberi, sulle automobili parcheggiate, sembra arrivi fino ai piani alti degli edifici, fino al cielo, che per un istante si fa scarlatto, come la luna, quindi diventa un lago non appena cadi a terra. È un tonfo che pare fare più rumore dei colpi di pistola esplosi. Gran parte dei proiettili sono alla testa. Un paio al torace. Buona mira anche in movimento. Poi l’automobile accelera e scompare lungo il Malcolm X Blvd. Lamont Coleman, in arte Big L, la stella nascente del rap della East Coast, il gelido 15 febbraio del 1999 è lì, sulla strada a nutrire l’asfalto del 45 della West 139th Street. Circondato dal proprio sangue e dai cioccolatini che aveva comprato per San Valentino – con un giorno di ritardo, perché si sa, gli affari tolgono tempo e attenzioni agli affetti – come dolce regalo al suo più grande amore: sua madre, che abitava a due passi di distanza. Cioccolatini e sangue. Tutti dissero che quel sangue versato non avrebbe dovuto essere il suo. Non aveva mai fatto male a nessuno, ripetevano increduli gli abitanti del quartiere, malgrado facesse rime, le migliori del circondario, su stupefacenti, troie, Glock e morte, Big L non era un delinquente. Big L era buono. Un piccolo rapper, a dispetto del nome (ma quel nome era ironia sul suo fisico mingherlino), senza precedenti penali.
“Lifestylez ov da Poor & Dangerous”, il suo unico album uscito in vita, era un capolavoro horrorcore e gangsta rap, quasi un documentario su esperienze di strada. Le più estreme. Le più allucinate. E allo stesso modo apparivano tutte quelle canzoni pubblicate postume, tantissimi fotogrammi sul vivere più marcio e pericoloso. “Big L è un tossico del denaro […] ho incastrato la mia pistola nel suo cervello, così quell’idiota è stato ammazzato”, cantava. Era per darsi un’aria da duro e sopravvivere in quell’inferno, dicevano i più smaliziati, quelli con qualche cicatrice da pallottole a segnare il corpo come medaglie del crimine. Altro che tatuaggi. Ma non c’è niente da fare quando in circolo hai il sangue di chi è nato e cresciuto nella danger zone. Quando le tue canzoni sono più forti della tua realtà e si sostituiscono a essa. Sostenevano tutti. Quel bravo ragazzo, che c’entrava? C’è però il tuo sangue in un carcere federale, non scordarlo. Scorre nelle vene e nelle azioni che hanno portato tuo fratello a scontare una condanna per rapina e spaccio di stupefacenti. Dovevi saperlo che quel fratello maggiore e scriteriato ti avrebbe messo in mezzo ai guai: che il suo sangue avrebbe fottuto il tuo. Certo, Leroy Phinazee, questo è il suo nome, ha solo metà del sangue di Big L, essendo figlio del primo marito della madre di entrambi, Gilda Terry (c’è anche un terzo fratello, Donald), ma basta e avanza per condannare a morte un innocente.
Perché nessuno è innocente sul Lenox Avenue. Forse neanche Big L.
Forse anche lui ha fatto parte del giro di spaccio del fratello. Forse anche lui ha fatto uno sgarro a degli spacciatori derubandoli dei soldi guadagnati dalla vendita di un carico di droga. Probabilmente era solo colui che aveva detto a suo fratello e al suo complice quando e dove sarebbe stata compiuta la trattativa, effettuata da alcuni suoi amici che mai avrebbero sospettato di lui. Non ci vuole niente, i soldi sono lì, passano da una mano all’altra, come la droga, e sono tanti. Basta individuare il momento giusto. Eccolo. Le ipotesi su come siano andate le cose adesso prendono due direzioni contrastanti. Leroy Phinazee è in carcere con Gerard Woodley, amico di famiglia e d’infanzia dei fratelli (compariva anche fotografato sul retro della copertina di “Lifestylez ov da Poor & Dangerous”), un tipaccio con vari arresti e detenzioni alle spalle nonché complice dei loro traffici (sempre ipotizzando che Big L ne facesse parte). In prigione deve essere successo qualcosa, forse il fratello di Big L non vuole dargli quello che gli spetta del furto, quanto pattuito, erano d’accordo, ma io ti ammazzo, hai capito, ti ammazzo, sì, sembra sia andata proprio così. Anche perché è lui, Leroy, quello condannato a stare dentro altri tre anni, mica Woodley che, accusato per gli stessi reati in associazione con Phinazee, viene scarcerato poiché non ci sono prove a suo carico. Neanche Big L gli darà un centesimo, può starne certo, e poi l’esile rapper nell’affare ha avuto un compito marginale. Magari neanche sa dove stanno nascosti i soldi. Leroy Phinazee è avido, non gliene frega niente di nessuno. Nemmeno del sangue del suo sangue. Pieno di rancore e in credito, Gerard Woodley vorrebbe ammazzarlo a Leroy Phinazee, ma non può aspettare che esca. Lì nessuno può attendere: non sai se ci sarai ancora il giorno dopo a passeggiare sul Lenox Avenue. Te la devi godere subito. Basta il piccolo fratello, ma sì, invece anche lui ha fatto la sua bella parte. Altroché. E ogni giorno che passa quel ruolo nel colpo gli appare più grande.
Già, i due fratelli sono d’accordo sul non dargli i suoi sacrosanti soldi.
Giorno dopo giorno le due figure si sovrappongono. Ora i due fratelli sono la stessa persona, che gira tranquilla per Harlem. Gerard vuole fargliela pagare a quegli stronzi che lo hanno fregato, a lui, il loro amico da quando erano bambini, quante ne avevano fatte insieme, amico soprattutto del rapper che si fa chiamare Big L ed è un microbo che si sta arricchendo mentre lui non sa dove sbattere la testa per alzare un po’ di dollari, come sarebbe giusto, e che diamine! Pensa che ucciderà quel piccolo grande MC che per il momento è anche suo fratello. Lo farà. Non pensa ad altro. Ha deciso. Poi si vedrà.
Quando, tre mesi dopo, la polizia lo va a prendere per riportarlo in carcere accusato dell’omicidio del ventiquattrenne Lamont Coleman, Gerard Woodley si dichiara innocente. Nessuna prova contro di lui. Nessun testimone. Ci risiamo. Presto viene rilasciato. Il procuratore distrettuale di Manhattan, pur essendo convinto della sua colpevolezza, non può fare altrimenti. Per molti del quartiere lui non c’entra niente con quella brutta faccenda e l’arresto si è dimostrato subito l’errore che era: Big L portava gli stessi gioielli di Leroy ai polsi e al collo, gli somigliava, e qualcuno, mai identificato, qualcuno degli spacciatori a cui i due fratelli avevano fatto il torto irreparabile, qualcuno che aveva capito, ma che pensava che il furto fosse opera solo di Leroy, e non sapeva che questi fosse in prigione, nel buio della sera invernale, tra le ombre degli alti palazzi, illuminato fino ad accecarsi da tutto quell’oro, deve averlo scambiato per il suo obiettivo.
Un regolamento di conti sull’uomo sbagliato. Oppure su quello giusto, perché gli spacciatori non c’avevano messo molto a realizzare che il giovane rapper loro amico era un traditore. Succede nella zona del pericolo. Non ti puoi fidare di nessuno. E mica sono tutti scemi. Anzi. C’è bisogno di sangue e in fretta per tenere fertile il terreno dei fiori del male.
La notizia della morte di Big L sconvolge Leroy e fa guadagnare cifre mai viste prima all’altro fratello, che nel giro di qualche anno, in collaborazione con il manager dell’artista, Rich King, pubblica ogni inedito possibile in quattro album. Nel 2002, Leroy Phinazee è finalmente fuori dal carcere, ma non fa in tempo a godersi la libertà che viene freddato allo stesso indirizzo in cui trovò la morte Big L: 45 West 139th Street, dove il sangue non si asciuga. È stato ancora l’amico d’infanzia che ha portato a compimento la sua vendetta, con la stessa modalità con la quale aveva già avuto successo? Quel tratto di strada evidentemente gli portava bene e da lì doveva passare il nemico per andare a trovare la mai consolata madre. Sono stati gli spacciatori che non hanno dimenticato?
Ci fu chi disse che il fatto che l’omicidio fosse stato perpetrato nello stesso luogo fosse un messaggio degli spacciatori rivolto a chi avesse avuto ancora la sciagurata intenzione di derubarli: quella strada è il posto delle esecuzioni. Il sangue, lì, non si asciuga mai, lo sappiamo. Forse, invece, Leroy e Gerard si erano dati appuntamento nella via vicino al parco davanti al cui ingresso era stato dipinto su un muro il ritratto in memoria di Big L (c’è lui con gli occhiali con le lenti tonde, l’aria seria, una catena con una grande croce d’oro al collo, un diamante al lobo dell’orecchio sinistro e una mano messa a pistola puntata, gli anni di nascita e morte, 1974-1999, e la scritta Big L. Street struck. The Big L story), quel Fred Samuel Playground dove il rapper vinceva le sue prime gare di freestyle, per risolvere la questione una volta per tutte. Faccia a faccia. Vediamo chi ha ragione. Leroy non ha avuto ragione. Come in un duello del vecchio west, non è stato veloce abbastanza.
Ma pure Gerard avrà torto. Sempre lì, nella danger zone, il 24 giugno del 2016, dopo quattro anni di carcere per traffico d’armi, al 106 West 139th Street sul Lenox Avenue, Gerard Woodley sarà ucciso con un colpo di pistola alla testa. Il sangue si assorbe ma non si asciuga.