BUIO PESTO@TODO MODO#4: L’UOMO COL CILINDRO E IL BAMBINO COL TOUPET

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Fotografia di Francesco Vignozzi

Il 13 maggio scorso eravamo alla libreria Todo Modo a Firenze, Andrea Frau si riposava in pace altrove, ma grazie all’esecutore testamentario Vinicio Motta (qui il video) abbiamo potuto leggere L’uomo col cilindro e il bambino col toupet, il quarto dei racconti inediti della serata Buio Pesto, che stiamo riproponendo ogni mercoledì qui sul blog.
La fotografia è di Francesco Vignozzi.

L’uomo col cilindro teneva per mano il bambino vestito di bianco mentre con l’altra trascinava un trolley sbilenco senza una ruota. Ogni venti passi circa, il signore si svitava la falange dell’indice, portava indietro la testa e dal cappuccetto roseo con unghia annessa si versava nel naso una polverina gialla. Il bambino indossava un toupet nero, ogni venti passi circa se lo toglieva, ci sputava su e si aggiustava la riga in mezzo. Il teatrino distava dalla stazione una quindicina di minuti. Quando arrivarono salirono direttamente sul palco. Il signore si asciugò il sudore della fronte con un fazzoletto, si schiarì la voce e presentò il piccolo:
«Signore e signori, vi presento Jeremy Bentham, il bambino prodigioso!»

Trenta persone vestite da sera sorseggiavano cocktail ai tavoli e fremevano nell’attesa. Ma a guardar bene, da sotto i tavolini, si potevano scorgere dei massi incatenati ai loro piedi.
Un bagliore abbaccinante investì l’uditorio, una coltre nera calò sul palco.
Il piccolo Jeremy urlò: «Che siate liberi, dico!»

I lucchetti scattarono, i corpi si librarono in aria, le tovaglie rosse caddero trascinando bicchieri e bottiglie; il pubblico, sorridente, ora fluttuava in aria, verso il soffitto del locale, fino al lucernario. Si sentì un ronzio elettrico, poi un odore di plastica bruciata e a terra rovinarono trenta manichini col viso squagliato.
L’uomo col cilindro applaudì soddisfatto, tributò un inchino al pargolo e disse:
«Ora finalmente il pubblico è quello giusto».
Aprì con prudenza la cerniera della valigia ed ecco che un enorme pallone schizzò fuori rimbalzando sul palco: era un occhio dal diametro di ottanta centimetri.

Il fanciullo disse all’uomo, come se stesse recitando:
«Tu non dovresti essere qui. La tua cella è vuota ora».
«Non è stata una mia decisione», rispose lui e aggiunse: «Io rifuggo la luce, voglio marcire nella segreta del sotterraneo, vi prego! La luce mi denuda, è spietata, mi lascia solo con quello che sono e che ho».
«Questa gente è qui per te, forza!» disse il bimbo.

Così il signore posò a terra il cilindro e accennò un patetico tip tap senza musica, trascinando il trolley fuori tempo.

«Va bene così?», chiese rivolto a quelle sagome di plastica con i volti gocciolanti.
«Vi prego, ho diritto all’oblio non voglio essere giudicato. Condannatemi pure, ma senza processo. Starò al buio, non vi contagerò, non mi vedrete, vi scongiuro: non merito la gogna».
Il giovane Jeremy Bentham lo schiaffeggiò e si rivolse agli spettatori:
«Questo è uno spettacolo interattivo, vi credete senza colpa, voi? Come fate a rimanere sotto la luce? Non lo vedete che così gli altri si accorgono di tutto? Vi siete mai visti di sfuggita, senza volerlo, in uno specchio? Qual è stata la vostra prima sensazione? Vi siete riconosciuti?»
A un manichino si scollò la testa e rotolò ai piedi del palco.
Il bimbo scese, la raccolse, ne staccò una poltiglia rosa all’altezza del bulbo oculare, se la infilò in bocca e con voce baritonale recitò:
«Io sono il sole che scioglie le ali di Icaro!»

Gli spettatori furono investiti da un bagliore ancora più potente.
«La persona che vi sta vicino è illuminata ma inutilmente. Potete anche puntargli contro un riflettore, ma non saprete mai che cosa sta pensando. Tu! Guarda il tuo vicino di posto, la prima cosa che penserà guardandoti è quella giusta, quella che tu temi, quella che tutti immaginano. Non puoi più nasconderti!»
L’uomo, ora senza cilindro, gonfiò le guance in maniera spaventosa e soffiò sul grande Occhio che, dopo carambole e rimbalzi, colpì Jeremy, facendolo ruzzolare giù dal palco. Sulla platea scese il buio come una liberazione, la luce svanì, un riflettore illuminò l’uomo:

«Vi svelerò io come difendervi: Chiudetegli questi occhi, non vi servono! Se loro accendono la luce, voi chiudete gli occhi. Se loro scoperchiano il vaso di Pandora, voi saltateci sopra per impedirlo. Se loro vogliono uscire dalla caverna per scoprire la natura di quelle ombre, voi non cascateci: la loro idea di realtà vale quanto la vostra. Se loro sono maestri, voi siate vandali, se loro sono luce, voi siate oscurità. Le persone occorre sentirle morire, non vederle vivere. Sconfessate il vostro guardiano, sconfessate voi stessi! Volete la luce? Pensate d’esser pronti? La luce non è quella dell’elettricità, quella artificiale, la luce, quella vera, acceca».

I primi venti manichini ripresero vita. Il bambino si tolse il toupet, ci sputacchiò su, stirò i due grandi ciuffi con i polsi, premendo sulla cute; l’uomo col cilindro svitò la falangetta e sniffò la polverina. I due rivolsero un inchino al pubblico, come fanno gli attori, poi rimpicciolirono e si tuffarono con evoluzioni sincronizzate dentro il cappuccetto. Il dito scomparve. Sul palco rimasero solo un cilindro, un minuscolo occhio di vetro, dieci manichini squagliati e venti persone senza la minima idea di cosa fosse successo e di cosa avrebbero raccontato.

Andrea Frau

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