
Giulia Pex, Le capre di Rani
Claudia Bruno (1984) vive tra Roma e Londra. Ha scritto Fuori non c’è nessuno, romanzo di racconti pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Effequ. Suoi racconti sono comparsi su riviste letterarie (Pastrengo, Flanerì, Abbiamo le prove, Colla, Cadillac, Il Paradiso degli Orchi), alcuni hanno ricevuto riconoscimenti (Premio Treccani Web, Corriere della Sera, Lab Novecento).
Con Le capre di Rani è per la prima volta su Verde. L’illustrazione inedita è di Giulia Pex.
Le mani della vecchia ripiegano un impasto sconosciuto, cambiano angolo di tanto in tanto per mescolare il brodo sul fuoco. Le vedo alternarsi nell’ombra della casa, ripetere gesti consolidati spostando l’aria di poco, con una sapienza posata e quasi inconsistente.
Sono solo le mani della vecchia che vedo, quando entro. Perché intorno al fornello è tutto buio, anche il volto che resta segreto. Pratahsmarami, dice il canto. Ed è un filo che scompare nella cruna e passa oltre, attraversa gli spifferi di questa casa di pietra e arriva fino alla curva in fondo al viale dove la seicento si è fermata. Ci sono voluti chilometri prima di rendermi conto che non avevo più la minima idea di dove mi stessi andando a cacciare. Ma davo per scontato che dall’altra parte di tutti questi tornanti in salita, ce ne sarebbero stati altrettanti in discesa e sarei finalmente potuto tornare a casa. È così che succede, nei posti di montagna. Si sale, si scende. Ci si dimentica di quel che c’è nel mezzo. Io invece nel mezzo mi sono incastrato. Le buche sono incalcolabili se a guidarti c’è un androide addestrato a farti uscire di strada. E quassù non c’è più segnale. Quando si dice uno scherzo del destino. Cammino sul ciglio fino alle case, sembrano vuote. Possibile che il destino abbia scherzato tanto da lasciarmi a piedi nell’unica contrada disabitata, mi chiedo. E cerco di percorrere con la punta del naso quella che sarà la traiettoria del sole. Tra due ore non si vedrà più niente.
È allora che sento il canto. Un motivo gentile che sembra invitare alla sera. Lo seguo fino alla porta socchiusa sull’uscio della quale mi soffermo alcuni istanti prima di bussare. Quando il canto si fa più forte capisco che posso entrare. Ho bucato, dico. C’è qualcuno che può aiutarmi? Le mani della vecchia iniziano un silenzio. Cerchiano la polvere bianca a delimitarne i confini. Ci rompono dentro un uovo grande dalla corteccia chiara. Da un bicchiere versano l’acqua sul tagliere. Non arrivano parole in quell’interstizio. Dopo poco il canto riprende ad accompagnare le mani. Sono stanco, avanzo lentamente nella penombra verso il tavolo e mi sembra d’interrompere un disegno che non mi aveva previsto. Mi appoggio appena allo schienale di una sedia. Mi scuso per il disturbo, ripeto la domanda. C’è qualcuno che può aiutarmi? Nessuna risposta.
Mi sveglio che sono seduto. Un orecchio poggiato sul ripiano di legno, la scodella vuota e accanto un cucchiaio e poche briciole. Sul fuoco c’è ancora qualcosa, ma adesso sono solo, la porta è chiusa e capisco che fuori il tramonto è già passato. Dormi, dormi, dice la voce di un uomo da un punto indefinito nella stanza, che domani mattina ci dobbiamo svegliare presto. Altrimenti a piana grande ci arriviamo che il sole è troppo alto, continua. E invece bisogna vederla che ancora c’è poca luce. Piana grande? Domando. E che vuol dire. Saliremo con la jeep di Beniamino, continua lui. Una volta nella vita almeno bisogna andare. Ma io ho le braccia troppo pesanti per capire. E in pochi attimi non ci vedo più.
Nel buio pesto sento dondolarmi le spalle. Andiamo, dice la voce. È ora. Rintronato seguo i passi fino all’uscio. Percorriamo il vialetto, la jeep ci aspetta parcheggiata in salita. Il vecchio sale e mette in moto. Credimi, non te ne pentirai, mi dice. Apro lo sportello e m’infilo dentro rallentato. Fa freddo, è ancora tutto buio ma dallo specchietto posso distinguerla bene. Ho un moto di inquietudine e stupore, la seicento è capovolta nella cunetta. Com’è possibile, dico, ho solo bucato. Strada maledetta, dice il vecchio. E poi si mette a fischiare un motivo che ho l’impressione di aver già sentito.
Quando la vedo mi spezza il fiato. È così bella che non ci credo. Lei è Rani, dice il vecchio. E si volta verso il panorama. Siamo in cima a tutto, la grande spianata sovrasta la valle. Il profilo dei monti di fronte s’intravede appena, retroilluminato da un bagliore leggero. Rani se ne sta dritta in piedi in mezzo alle capre, non proferisce parola, le iridi cristalline, le guance arrossate dal freddo, i seni teneri protetti dalla camicia di flanella. La sua grazia mi dona un brivido di eccitazione mista a turbamento, la fermezza della sua postura m’intimorisce. Con lo stivale dà un colpetto a un piccolo che si allontana, lo riporta accanto alla madre. Infila una mano nella tasca della lunga gonna, ne tira fuori un sasso appuntito. Lo rigira tra le dita con dei movimenti impercettibili. Mi ricorda la superficie di un lago increspata dal vento. È così viva, mi guarda ma non mi guarda. Dove sei nata, Rani, le chiedo. E lei si gira i capelli intorno all’orecchio.
Il vecchio è andato più avanti, fa segno in direzione del sole. Lo seguo. Dietro di me Rani tiene intorno a sé tutte le capre, gli sguardi rivolti alla luce, talmente affilati che sul volto di un uomo non s’incastrerebbero. È bello qui, le dico, sapendo che non seguiranno risposte. E invece lei farà due passi verso la mia schiena. Protenderà le labbra e puntandomi il piccolo sasso tra le scapole sussurrerà una frase dal suono familiare in una lingua che non conosco. Poi, di fronte al mio smarrimento, indicherà con quel sasso un lastrone di pietra. Ci sono graffiate sopra poche lettere, mi sembra di poterne intuire le forme ma non riesco a capire davvero. Pratahsmarami, c’è scritto. Che significa, chiedo. Ma mi esce fuori un verso simile a un belato. E mentre stordito mi guardo gli zoccoli in fondo alle zampe sottili sento solo il vento che canta, da qui non te ne andrai.