Elena Marino si presenta così: “Ho fatto ricerca universitaria, collaborato a dizionari di greco, scritto un libro sulla metrica, alcuni articoli sul teatro, alcuni racconti e un’infinità di testi teatrali. Da tempo mi guadagno da vivere facendo teatro.” Elena ha un blog e di Quello ti attraversa la mente, il suo primo racconto per Verde, dice che è un quasi horror.
L’illustrazione, da Dark and Light, è di DaniPas.
Le strade, a quell’ora di notte, erano deserte e i semafori lampeggiavano. Il sibilo ritmato della sua bicicletta gli dava l’impressione di tagliare l’aria fredda in due parti che rimanevano distaccate dietro di lui, come due fette di mondo. Magari fosse riuscito a essere così deciso e tagliente in ciò che desiderava! Sarebbe bastato davvero poco per trovare il coraggio di insistere, persuadere, magari anche un po’ forzare, scherzare in modo più volitivo, assumere un atteggiamento lascivo e inequivocabile. C’era andato vicino, ma poi si era confuso, preoccupato per un possibile rifiuto. La serata era stata molto piacevole, e per il fatto che fossero amici nuovi e inoltre stranieri, la poteva definire addirittura sorprendente, considerato che lui non si aspettava mai granché da situazioni con persone che non conosceva bene. Erano andati a mangiare un hamburger veloce, e poi al cinema. Avevano scelto uno di quei film che si solito lui non vedeva, ma l’inaspettata voglia di riuscire gradito a quella compagnia lo aveva convinto a confessarlo e a non scoraggiare l’entusiasmo del gruppo. Si trattava di un film che parlava di sentimenti, di famiglia, di lavoro, di difficoltà quotidiane, un film molto quotato dalla critica militante, e che i nuovi amici, tutti finlandesi, apprezzavano come prodotto artistico. Per lui era stato una noia infinita. Dario aveva sopportato la proiezione solo perché gli aveva permesso di godere di due ore di semioscurità accanto ad Ainikki, la ragazza più bella del gruppo, dai lineamenti talmente sottili e dalla pelle talmente perfetta e luminescente da rendere nuova e sopportabile l’usuale espressione “una pelle di porcellana”. Il contatto fisico gli aveva accelerato il battito del cuore e più volte, esasperato dalla propria eccitazione, era stato sul punto di osare e svelare le sue intenzioni. Ogni volta però aveva desistito, scivolando in movimenti ambigui che potevano essere interpretati come casuali e che, pur permettendogli di poggiare il dorso della mano sulla coscia di Ainikki o di sfiorarle il seno, e di inebriarsi molto da vicino del profumo del suo collo, non lo costringevano a compromettersi in cambio di un rifiuto.
Fino all’ultimo momento aveva cercato il coraggio per sussurrarle all’orecchio quelle frasi in inglese che andava rimasticandosi ossessivamente nella testa da quando l’aveva adocchiata, provando un sussulto nel ventre e una vampata nel petto. Aveva perfezionato mentalmente le frasi per tutta la serata, ed era riuscito a mostrarsi addirittura simpatico e spiritoso, o almeno così gli era sembrato. Ma era consapevole che, come tutte le altre volte, qualcosa gli avrebbe impedito di ottenere ciò che voleva: andare a letto con una ragazza che gli piacesse veramente senza che lo intimidisse, invece che con una qualunque che lui disprezzava ma che era pronta a darsi. Neppure l’alcol lo aveva aiutato a sciogliersi fino al punto necessario per dimenticare la sua profonda, ostile, insopportabile convinzione di non possedere in sé nulla d’interessante che avrebbe potuto affascinare una ragazza come quella. Avrebbe desiderato tanto d’essere speciale, bizzarro, intrigante, bellissimo o geniale, ma radicata in sé aveva la convinzione di non essere niente di tutto questo. Sentiva d’essere vuoto, e questa sensazione non lo abbandonava mai, anche se in apparenza possedeva molti amici, una vita intensa di divertimenti ed era – a detta di quanti facevano mostra di stimarlo – proprio di bell’aspetto. Quanto più riceveva complimenti e apprezzamenti, tanto più sentiva di nascondere qualcosa, si sentiva un impostore.
La serata con gli amici finlandesi si era conclusa da poco, e Dario aveva inforcato la sua bici per tornarsene a casa con la morte nel cuore. Avrebbe potuto almeno provare a proporre ad Ainikki di trascorrere un’altra mezz’ora con lui. Avrebbero potuto vagare insieme alla ricerca di un locale ancora aperto, oppure avrebbero potuto parlare seduti su un gradino monumentale nella città deserta, anche se il freddo umido che infoscava le strade li avrebbe resi rapidamente tremanti. O meglio ancora, avrebbe potuto chiedere ad Ainikki di seguirlo a casa sua, invece di rientrare con gli amici nel loro grande e studentesco appartamento condiviso, saturo di odori e di borse di tessuto decorato e indumenti abbandonati ovunque, con le stanze da letto ricoperte di materassi poggiati su pallets come letti. E una volta a casa, le avrebbe potuto chiedere di sedersi insieme sul letto, e poi si sarebbero baciati e avrebbero fatto sesso per tutto il resto del buio, e anche al sorgere del sole. L’avrebbe tenuta lì anche con la luce del giorno, e avrebbero continuato a fare sesso mentre facevano colazione e poi pranzavano. E se per cena non si fosse ancora stufato di lei, avrebbero fatto sesso anche durante la cena, al giro di boa di un altro giorno.
Dovette rallentare e il sibilo della bicicletta andò spegnendosi mentre imboccava la pista ciclabile che correva intorno ai giardini della grande piazza a poche centinaia di metri da casa sua. L’incuria dei giardinieri del comune aveva permesso alle fronde delle folte siepi, che s’alzavano lungo tutto il perimetro, di invadere in alcuni punti la pista ciclabile. Una massa di vegetazione quasi impenetrabile scintillava di piccole foglie di riflesso sotto la luce dei lampioni. Al di là del muro intermittente di siepi si vedeva il cuore dei giardini, occupato da alcuni grandi alberi e dal prato in cui sorgevano i giochi per i bambini: un enorme gatto di legno, sul quale era possibile arrampicarsi a camminare; due casette sopraelevate con tanto di passerella; uno scivolo; una struttura per esercizi ginnici non meglio identificata; una giostra fantasiosa che funzionava a spinta; infine un’altalena. La luce fioca dei lampioni delineava i giochi come figure immobili, avvolte dalla leggera foschia dell’umidità notturna. In mezzo al prato correva un sentiero di ghiaia e fango che accorciava il circuito forzato della pista ciclabile e permetteva di tagliare in diagonale la piazza. Dario svoltò e guidò la bici sui sussulti della ghiaia e delle buche di quella scorciatoia. Stava attento a evitare i sassi, concentrato sul fascio di luce del fanale, ma con la coda dell’occhio gli sembrò di vedere qualcuno seduto su una delle panchine ai lati del giardino, e si voltò a guardare.
Dovette fermare la bicicletta per guardare meglio. Strizzò gli occhi: su una delle panchine a ridosso delle folte siepi, sotto i grandi alberi che facevano muraglia separando i giardini dai palazzi di fronte, una sagoma immobile sembrava avere le mani in grembo. Quella figura, un uomo o un ragazzo, non una donna, sembrava senza testa.
Nel silenzio della piazza, interrotto solo dal ticchettio elettrico dei semafori lampeggianti appesi sull’incrocio che la concludeva, Dario poteva sentire il suo respiro affannato per la corsa in bici e gli scricchiolii della ghiaia sotto le gomme della bici che avanzava di qualche millimetro mentre lui teneva il piede a terra e recuperava di tanto in tanto l’equilibro. Le sue mani stringevano i freni, e si sentì impaziente di mollarli e ripartire per concludere l’attraversata di quella piazza. Ma quella figura calamitava il suo sguardo.
Si guardò intorno: le ombre dei giardini erano ferme, prive di ogni segno di vita. Il silenzio gli premeva sulle orecchie.
Poteva decidere di andarsene. O poteva avvicinarsi per vedere meglio. Pensò che non poteva davvero essere un uomo decapitato, sarebbe stato assurdo. Qualcun altro se ne sarebbe certo accorto prima di lui, e avrebbe avvisato la polizia. O le stesse ronde di polizia lo avrebbero notato. Doveva trattarsi di una illusione ottica. Realizzò che la curiosità non gli avrebbe dato pace finché non lo avesse verificato. Diede ancora una volta un’occhiata attorno, ma la piazza era deserta. Scese dalla bici e conducendola a mano s’incamminò verso la figura.
Quando fu alla distanza di circa dieci metri, vide che l’uomo indossava un giubbotto scuro, pantaloni jeans e scarpe da ginnastica. Stava seduto appoggiato allo schienale della panchina con le mani abbandonate in grembo. Ma senza la testa. Rimase a fissarlo per alcuni minuti, ipnotizzato, poi, attratto da qualcosa più forte della ragionevolezza, si avvicinò di alcuni metri, fino a vedere chiaramente che il giubbotto era più scuro in prossimità del punto in cui avrebbe dovuto esserci il collo. Sulle mani pareva essersi depositata in abbondanza una sostanza altrettanto scura. Poco distante dalla panchina, in prossimità dei cespugli incolti della siepe, alta e folta, si intravedeva una forma rotondeggiante. Dario ipotizzò che fosse la testa dell’uomo: si piegò in avanti, e si appoggiò con gli avambracci sul manubrio della bicicletta a contemplarla. Il sangue gli pulsava forte alle tempie. Non provava paura, ma una forte eccitazione che gli stava sbocciando nella mente e in tutto il corpo, uno stupore quasi divertito per il fatto di di trovarsi in una circostanza talmente strana e speciale.
Avrebbe chiamato la polizia, e avrebbe detto: “qui c’è un uomo decapitato”. Sulle prime non gli avrebbero creduto. Chissà quante cose gli avrebbero chiesto prima di dare retta a quello che stava dicendo. Avrebbe dovuto ripetere, con voce seria. Dare descrizioni e indicazioni circostanziate. In seguito sarebbe diventato un testimone attendibile, uno con un ruolo preciso nella catena di clamorosi eventi successivi.
Poi lo avrebbero scritto sui giornali, che era stato lui a scoprire il cadavere. Non si trattava di un cadavere qualunque, come quando uno si getta nel fiume per suicidarsi, o si avvelena in casa, o muore colpito da una pistola o da una pugnalata. No, questo era proprio un cadavere spettacolare, trovato morto d’una morte davvero strana in una città come quella. Sarebbe stato certamente un mistero da risolvere. Lui, l’uomo che lo aveva comunicato al resto del mondo. Nessuno se ne è accorto, solo io, pensò Dario guardando ancora intorno a sé la piazza e i giardini deserti.
Gli attraversò la mente un altro pensiero. Adesso aveva una scusa valida, un motivo eccezionale per telefonare a Valdemar, l’unico dei finlandesi di cui avesse il numero di cellulare. Li avrebbe pregati di raggiungerlo subito in quella piazza.
Avrebbe dato loro l’occasione di vedere qualcosa di straordinario, benché raccapricciante, forse, per le ragazze.
Annuì a se stesso stringendo le labbra, come se una videocamera come quella del Grande Fratello potesse riprenderlo.
Avrebbe avvisato prima i finlandesi, e solo dopo la polizia.
Avrebbe fatto in modo che venissero tutti lì, anche Ainikki, a vedere quello che lui aveva scoperto. Si trattava di uno spettacolo imperdibile, avvenimenti che capitano una sola volta nella vita: trovarsi così nel centro esatto di un fatto di cronaca senza esserne protagonisti, toccare con mano altri piani della realtà che di solito sono riservati alla televisione, ai telegiornali, alle trasmissioni di indagine.
Avrebbe potuto superare d’un balzo tutte le esitazioni con Ainikki e a quel punto sarebbe stato quasi necessario abbracciarsi, stringersi, toccarsi.
Aveva bisogno di toccare Ainikki, di realizzare le fantasie che lo avevano tormentato per tutta la serata. Voleva condividere con il suo corpo l’isterica consapevolezza di qualcosa di estremo. Era l’occasione giusta.
Tirò fuori il cellulare, attese a lungo, ma nessuno rispose. Con un malumore crescente rifece il numero e rimase con il cellulare attaccato alla testa finché non cadde di nuovo la linea. Pensò al da farsi. Avrebbe dovuto chiamare la polizia. Ma non voleva, non prima di aver sfruttato al meglio quella circostanza fortuita. Piegato in avanti sul manubrio della bici, scuro in volto, provò per la terza volta a telefonare all’amico finlandese.
Uno scalpiccio alle sue spalle gli fece alzare la testa e sobbalzare il cuore. Si voltò. Un vecchio trasandato, con pantaloni malamente tenuti su che finivano lacerati e consumati sotto ciabatte sformate, si era fermato dietro di lui. Il vecchio aveva capelli grigi, lunghi e visibilmente sporchi. Uno sguardo cattivo.
Dario tenne in mano il cellulare come un’arma. Voleva risalire in bicicletta, ma per qualche motivo non osava farlo.
«È successo qualcosa. È pericoloso stare qui. Devo chiamare la polizia», disse Dario in modo sconnesso.
«Cosa è successo?» La voce del vecchio gli arrivò come uno stridio meccanico, insieme al rantolo dell’inspirazione.
«C’è un morto, un cadavere. Gli hanno tagliato la testa».
«Dov’è questo morto?» Il vecchio lo fissava con astio.
«Lì!», disse Dario, e indicò la panchina vuota. Aprì la bocca come se la sorpresa gli avesse soppresso all’istante l’aria nei polmoni.
«Non vedo niente», disse il vecchio.
Il ragazzo percepì un colpo duro e secco, come il rinculo di uno sparo, dentro la testa.
«Se ci fosse un morto qui, sarebbe qualcosa di terribile», disse ancora il vecchio. «Io qui non ne ho mai visti. Però dietro quelle case, dove c’è un vecchio deposito della ferrovia, una volta è morto un uomo per il freddo. S’era messo a dormire in una cabina per gli attrezzi, ed è morto assiderato».
Dario sentì un altro colpo duro e secco dentro la testa, e un capogiro. Si appoggiò alla bicicletta, ma gli parve di perdere l’equilibrio.
«E la polizia cos’ha detto? Arriva subito?»
Dario raccolse le sue forze per tentare di rispondere. La nausea gli risalì rapidamente l’esofago. Chiuse la bocca, strinse le labbra, e non tentò più di parlare. La sensazione di capogiro aumentava sempre più, fece qualche passo verso la panchina vuota, lasciò cadere la bicicletta e si buttò a sedere sulle assi di legno sulle quali prima gli era parso di vedere un corpo. Il vecchio si avvicinò a lui, ma Dario ormai faceva fatica a mettere a fuoco quello che stava accadendo intorno a lui. Sentiva delle voci che parlavano dietro di lui, fra i cespugli. Voci infantili o femminili, acute. Sussurravano e ridacchiavano. Lui voleva voltarsi a guardare, ma non ce la faceva. Gli sembrò che cantassero. Provava fastidio, sentiva l’odio montare, ma non poteva fare niente, perché la terra gli vorticava intorno anche se tentava di tenere i piedi al suolo e si ancorava con le mani alla panchina.
«Allora non l’hai avvisata la polizia?», insisteva il vecchio. «D’altra parte, se non c’è nessun cadavere, perché mai avresti dovuto avvisare la polizia, giusto?»
Le voci si avvicinavano, i cespugli parevano muoversi con scatti repentini, intorno a sé tutto cambiava di posto in modo velocissimo, impossibile da fermare.
Vide che il cielo non era più coperto e adesso c’erano le stelle. Era un pensiero bello, che si stagliava nell’orrore che attorno a lui si consumava. Sentì bagnato su tutto il corpo. Sentì di essere separato da tutto e di volare via. Invece cadde. Immaginò un tonfo, un colpo secco e potente come uno sparo, e udì un sibilo. Chiuse gli occhi e li riaprì. Vide masse scure. Comprese che erano rami e foglie. Nel naso gli penetrò un odore di ferro e terra e piscio. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, ma non poteva. Avrebbe voluto voltarsi da un’altra parte, ma non poteva.
La ruota della bici, che cadendo si era messa a vorticare staccata dal terreno, continuò per qualche istante a girare con il suo sottile sibilo ritmato. Il corpo del ragazzo pendeva leggermente a destra, le mani in grembo. Il sangue cominciò a gocciolare lento dalle dita sul terreno, inzuppando le foglie sotto la panchina.
Il cellulare era rimbalzato qualche metro più in là, e adesso suonava una musica allegra ma ripetitiva. La musica si interrompeva qualche secondo e ricominciava subito dopo, in modo ossessivo. Il vecchio si avvicinò al cellulare, lo raccolse piegandosi a fatica, sbuffando. Quando la musica riprese, il vecchio rispose alla chiamata.
«Chi è?»
«Sono Valdemar. Mi hai chiamato tu. Ho trovato le tue chiamate…»
«Io non ho chiamato nessuno».
«Non sento bene… Pronto? Dario?»
«Io non ho chiamato nessuno», ripeté il vecchio.
«Sì, dal tuo numero… Dario, mi senti? Mi hai chiamato tu!»
«Io non sono Dario».
«E chi sei allora? Dario dov’è?»
«Qui non c’è nessun Dario».
«Ma questo è il suo numero di telefono. Ne sono sicuro».
«Qui non c’è nessun Dario. Qui c’è solo un cadavere, informa la polizia».
«Ma cosa stai dicendo? Chi sei?»
«Ti dico l’indirizzo di questa piazza, così potrai chiamare la polizia».
«Io non chiamo nessuno! Prima mi dici chi sei e dov’è Dario!»
«Va bene. Come vuoi. Tanto domattina lo troveranno lo stesso».
Il vecchio chiuse, e fissò per un po’ il cellulare sorridendo con la sua bocca arida e ritratta in dentro come una fossa nella terra. Quando il telefono squillò ancora, il vecchio si piegò indietro con il braccio e lo scagliò tra gli alberi e le siepi. Riprese a camminare sulla ghiaia del viottolo che attraversava il prato, strascicando le sue ciabatte. Arrivò dall’altra parte della piazza, dove c’era l’incrocio con i semafori lampeggianti, attraversò la strada deserta, imboccò un sottopassaggio e scomparve.
La musica del cellulare continuò ancora per qualche minuto, e finalmente tacque. Sulla piazza tornò il silenzio, interrotto solo dal ronzare ritmico dei semafori. Non passarono automobili fino quasi alle quattro di mattina. Poi, verso le sei, un autobus si fermò alla fermata poco distante, depositando il suo contenuto di esseri umani ancora mezzo addormentati, che si diressero come automi verso la stazione dei treni. Il bar sulla via prospiciente la piazza alzò la saracinesca. Una signora con un cane al guinzaglio imboccò il varco tra le siepi che portava al prato della piazza e al recinto per i bisogni dei cani. Camminava in fretta. Non si sarebbe accorta di niente se il cane non avesse iniziato a tirare con forza verso la panchina. Quando vide il corpo del ragazzo e la testa rotolata accanto al cestino dell’immondizia, la signora cacciò un urlo.
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