Alessio Mosca è nato a Roma nel 1990 a Roma. Da bambino ha il suo primo incontro con la masturbazione mentale e da lì non ha più smesso. Ha una infanzia molto movimentata passata da una festa di compleanno all’altra abusando di palloncini colorati e bevendo coca-cola di nascosto. Nonostante questo trova il tempo di appassionarsi al cinema, all’arte e all’evoluzione umana. Tradito dalla religione, dalla scienza e dalle donne, un solo amore gli rimane fedele: la letteratura. Durante il liceo si infatua di Nietzsche, Freud e Vanna Marchi che lo iniziano rispettivamente alla filosofia, alla psicoanalisi e all’esoterismo. Cercando di curare se stesso si iscrive alla facoltà di medicina per diventare uno psichiatra, percorso che continua ad intraprendere. L’impellente desiderio di esplorare l’animo umano e l’apparizione di Flaubert in sogno che gli intimava di fare lo scrittore lo hanno portato a pubblicare racconti e poesie su varie riviste e siti letterari tra cui Rapsodia, rivista per la quale diventa redattore. Cercando di fare invidia a Carver sta ultimando il suo primo romanzo.
La gigantessa è il primo racconto che pubblica su Verde.
Fotografia di Federico Arcangeli (Where is my mind?).
Avrei voluto vivere accanto ad una giovane gigantessa, come un gatto voluttuoso ai piedi di una regina.
Charles Baudelaire, La gigantessa
Nella notte tetra il rumore dei suoi passi riecheggiava sopra al fruscio delle acque mosse dalla brezza, a sinistra gli antichi palazzi fitti e alti e sulla destra il fiume, così, più che su un marciapiede, pareva camminasse lungo una banchina. Sulle acque torbide e placide del canale galleggiavano le chiatte affilate come siluri, da dietro quelle finestrelle rettangolari si sentiva osservato da schiere di gitani insonni.
Avvolto nel cappotto nero l’uomo s’addentrò in un vicolo stretto e arrivò di fronte ad un massiccio portoncino di legno. Una testa di satiro in bronzo stringeva fra i denti ghignanti un battente, lo afferrò e bussò tre volte. Sentì il cigolio dello spioncino alzarsi dietro la porta e poco dopo la serratura scattò.
Un distinto uomo pallido e magro in un completo elegantissimo lo accolse.
«Ben arrivato signore.Vuole dare a me il suo cappotto?», disse stringendo gli occhi che sovrastavano due gonfie borse rugose. «Mi segua».
La bettola era illuminata da una soffusa luce arancione che pareva mescolarsi al buio spegnendo i colori dei tappeti turchi che addobbavano le pareti.
L’aria densa di fumo era dolciastra, come una nebbia inebriante offuscava la vista, confondeva i sensi, rendeva molli le gambe che cedevano sotto al peso del corpo; si accasciò sui cuscini, sdraiato su un fianco e con la testa poggiata su un gomito, e svogliatamente prese a tirare delle profonde boccate da una pipa messa a terra. Flessa come il gambo di un’orchidea si portava alle sue labbra, il fornello d’argento era a forma di testa d’anatra il cui becco aperto ospitava la mista d’oppio che ad ogni tiro si faceva incandescente.
Il fumo già iniziava a salire e l’ebbrezza a carezzargli le tempie quando un profumo afrodisiaco gli penetrò nelle narici scuotendolo fin nelle membra.
Il signore magrolino fece strada a tre uomini dai tratti mediorientali accompagnati ad un’enorme figura femminile incappucciata e avvolta in un lucido tabarro nero.
La donna alta quasi due metri impressionava per la mole della sua stazza; del volto, oscurato dall’ombra del cappuccio, si poteva vedere solo il doppio mento lucido. Era tenuta per i lembi del mantello da due omini effeminati, degli eunuchi probabilmente, che rigidi parevano tenere una fiera per le catene. Il terzo camminava avanti a tutti, con indosso un turbante ed una sontuosa veste indiana; aveva due importanti baffoni neri che si univano alla barba e un frustino legato alla cinghia come una scimitarra.
Si fermarono al giaciglio di fronte quello dell’uomo. «Si accomodino pure qui», disse l’elegante vecchietto, «vi prego di attendere qualche minuto». Il Maharaja si sedette su una poltroncina, imitato dai servi che trascinarono con sé la gigantessa: alla vista della donna fu preda di un’eccitazione mai provata tale da fargli perdere il senno; i muscoli gli tremavano, sudava e gli occhi completamente anneriti erano divorati dalle pupille. C’era un mistero in quelle ciclopiche forme femminili che dialogava direttamente con il suo istinto, lo riempiva di desiderio; il profumo che emanava era sempre più intenso e lo soffocava – come gli altri riuscissero a respirarlo era un mistero. Il mantello della donna si sollevò ai lati e lasciò scoperti i polpacci carnosi e sodi. Era tanta carne morbida coperta da una bianchissima pelle liscia e pingue. Sentì il sangue bollire e una smania domabile a fatica di carezzare e toccare quelle gambe, di baciare i rotoli che si erano formati intorno alle ginocchia. La donna, come sentendo le sue voglie, aprì le gambe e lasciò che si rivelassero ancora di più, nel nero della loro giunzione.
La fecero fumare a forza da un narghilè, bloccandole la testa e tappandole il naso. La gigantessa fumò e tossì, e mano a mano che tirava la droga la stordiva, finché non fece più resistenza.
Il signore magrolino tornò e prosternato si rivolse all’uomo col turbante:
«Lui è pronto», disse in tono solenne. Il Maharaja si alzò seguito dagli altri due che con un grosso sforzo tirarono su la gigantessa. Un lembo del tabarro restò incastrato sotto al piede di uno degli eunuchi e il mantello scivolò a terra rivelando la donna in tutta la sua poderosa nudità. I seni mastodontici pendevano gonfi fin quasi all’ombelico poggiando su una pancia spessa per il grasso ma dura per i muscoli sottostanti che mettevano in risalto il bacino e i fianchi massicci. I glutei erano prosperosi e tondi, parevano un enorme pomo che partiva da metà schiena per terminare a metà coscia. Soltanto il pube era celato da un fazzoletto di stoffa tenuto da un filo; i capezzoli erano invece coperti da due pasties cilindrici da cui pendevano ciondoli d’oro.
Il membro dell’uomo era dritto e rovente e spingeva contro la cerniera dei pantaloni. Un alone di seme si allargò sul tessuto: sarebbe bastato che la donna lo sfiorasse per farlo consumare dal piacere tanto agognato.
Un servo si precipitò a raccogliere il mantello da terra. Il signore col turbante gli si avventò con rabbia sferzandogli frustate alla cieca, poi passò all’altro che neppure fu risparmiato.
I due, gementi, ricoprirono la gigantessa e a passo chino seguirono il capo.
L’uomo intanto sentiva di essere stato ineluttabilmente compromesso, corrotto nell’animo senza possibilità di ritorno; aveva acquistato una nuova vita il cui unico scopo consisteva nel possedere quella donna, vivere per un corpo, morire per un odore. In preda a quella follia, si mise a pedinare la piccola congrega nascondendosi nella nebbia dei fumi. Entrarono in un’altra sala dove fumatori d’oppio vaneggiavano o dormivano riversi su delle antiche chaise-longue. In fondo alla stanza un altra stanza ancora, poi ancora un’altra; cambiavano le forme delle pipe e l’aroma dei fumi, nuovi spazi si aprivano che lo spessore del palazzo non sembrava potesse contenere. L’ultima sala possedeva un’unica apertura nella parete sormontata da un arco, una pesante tenda rossa ne copriva l’ingresso e davanti a questa un possente guardiano nero ne impediva il passaggio. Era così muscoloso da parere ridicolo stretto nell’abito da sera con il collo taurino strozzato dalla camicia bianca. Se ciò non bastasse aveva degli occhi sporgenti e tondi circondati da lunghe ciglia arricciate cariche di mascara e un pesante rossetto sulle labbra già scure. I pantaloni attillati mostravano la sagoma di una grossa erezione.
L’uomo si fermò ma continuò ad osservare la compagnia confondendosi con i fumatori che gremivano il locale. Il vecchietto si scambiò un’occhiata veloce col guardiano che si scostò lasciando libero il passaggio, così i quattro scomparvero dietro la tenda. L’uomo disperato cercava nel suo ingegno un modo per distrarre il guardiano e poter seguire la donna. Pochi istanti dopo la tenda si mosse e sbucò nuovamente il vecchietto. Abbracciò da dietro il guardiano, gli premette una guancia contro la schiena e gli infilò una mano dentro ai pantaloni palpandolo avidamente; i due si appartarono in un angolo e si persero nell’ombra. L’uomo colse immediatamente l’occasione, attraversò la tenda rossa e si avventurò al di là dello specchio.
Delle scalette strette e fitte scendevano scavate nel sottosuolo roccioso, dove delle candele illuminavano appena l’ambiente. Ad ogni gradino la temperatura saliva e l’aria diveniva densa e infuocata, mentre il dolce odore d’oppio si fondeva alla puzza di muffa e al profumo che lo faceva ansimare.
Sceso l’ultimo gradino, un vasto ambiente fatto di archi, corridoi e cunicoli si dispiegava ai suoi piedi. Un fiume scorreva tortuoso incrociando strade, passaggi e ponti come in una labirintica Venezia sotterranea. Le luci ambrate delle fiammelle lottavano con le tenebre proiettando lunghe ombre nere sulle pareti sulle quali erano appese stampe giapponesi sconce.
Si avventurò per un androne quando ad una svolta vide due occhietti brillare nell’oscurità avvicinarsi a passi svelti e echeggianti, simili ad uno scalpitio di zoccoli. Un nano taurino dalla pelle quasi marrone gli si parò davanti, aveva capelli folti e sopracciglia nere, le due tozze braccia erano ricoperte da tanti tatuaggi dai colori accesi raffiguranti simboli alchemici, teschi, donne nude, ricordi di misteri orfici e religioni primitive; Demetra.
L’uomo restò pietrificato dallo stesso terrore disgustato che provano i bambini di fronte ai deformi. Si fissarono per qualche secondo immobili, poi il nano corse via sfiorandogli la gamba ed emettendo risolini infantili.
Nonostante la paura non riuscì a tornare indietro, un impulso delle viscere gli imponeva di continuare a seguire la scia del caldo odore di femmina che si faceva sempre più intenso e sempre più inebriante, aumentando il suo desiderio poiché significava che si stava avvicinando. Cominciò a correre.
Passò per vie tortuose e passaggi, arrivò davanti alla porta che custodiva la fonte dell’odore. Era aperta. Entrò.
Uno spettacolo terribile gli si parò davanti: la gigantessa, stordita dalla droga, era nuda, poggiata con la schiena al muro e le braccia tese in alto da catene pendenti dal soffitto che la ammanettavano stritolandole i polsi. Una maschera d’uccello dal lungo becco le copriva il volto lasciando la grassa bocca scoperta, mentre lucide piume azzurre scendevano fin sopra i seni a bisaccia. Il sesso, sormontato da una riccioluta peluria dorata, era nascosto dalle forme abbondanti; tutto in quell’essere suggeriva voglie e desideri.
L’uomo ebbe un impulso di pietà verso la prigioniera, ma allo stesso tempo saperla incapace di fuggire e ribellarsi accese di più la sua lussuria. Domata, impotente, finalmente sua.
Le cadde ai piedi con le ginocchia a terra, alzò lo sguardo trovandosi davanti al volto i seni enormi. Li guardò estasiato, cominciò ad odorarla come un ossesso, schiacciandole il naso sulla pelle, affondandolo e infilandolo in ogni piaga del corpo. Le mani la palpavano avidamente, afferravano i seni talmente grandi da non poterli contenere, le dita affondavano, con la punta della lingua leccò un’areola seguendone il contorno, succhiò voracemente il capezzolo pompando il collo avanti e indietro, percorrendolo con le labbra per tutta la sua lunghezza.
Scese fra le cosce e si fece spazio fra i rotoli delle gambe e la sua mano fu ingoiata come da una bocca affamata dalla gola bagnata e bollente.
Fu allora che la gigantessa emise un vero e proprio muggito.
Avrebbe voluto essere minuscolo per penetrarla con tutto il proprio essere. L’uomo ritrasse la mano e uno spago di muco filante gli rimase incollato ai polpastrelli. Si succhiò avidamente le dita mentre la donna gemeva dal piacere lanciando dei versi grevi e di gola. Allarmati da quei vagiti, degli urli rabbiosi in una lingua sconosciuta si levarono dal fondo dei sotterranei; la paura fu più forte della libidine e l’uomo, spremuto dal godimento, trovò la forza di staccarsi e gattonare a fatica dietro una colonna in ombra facendosi inghiottire dal buio, appena in tempo per non essere visto.
Entrò nella stanza un uomo a torso nudo, mostruoso, una solenne maschera di cervo gli copriva il volto e delle lunghe corna dorate lo sormontavano. Si avvicinò a passo lento verso la gigantessa, poi si fermò e cominciò a tirare su col naso grosse boccate d’aria.
Schiacciato contro il freddo marmo, tremava in preda al panico mentre sentiva sbuffare la bestia; vedeva le nere narici animalesche del muso aprirsi e chiudersi per annusare l’aria alla ricerca della fonte dell’odore intruso. Puntò verso la colonna. Là, fissò lo sguardo per qualche secondo e poi, come era entrato, uscì.
L’uomo, cadaverico, sbucò fuori, lanciò uno sguardo pieno di vergogna verso la prigioniera e scappò via. Correva come un forsennato in stato confusionale, ora i gemiti, i rumori, le ombre, lo straziavano dal terrore, inciampava, si rialzava, andava a sbattere sulle pareti, poi si ritrovò davanti al corso d’acqua e vi si gettò dentro sperando che le acque lo ingurgitassero, facendolo sprofondare in un oblio lontano.
Il mattino seguente un pescatore lo trovò arenato su una riva del fiume alle porte della città. L’uomo non raccontò mai nulla di quella notte. Pochi giorni dopo tornò nel vicolo, ma la porta con la testa di satiro non era più lì.
Tentò di dimenticare, forse dimenticò, ma il profumo, non il profumo.
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