Casual Friday (qui e su Facebook) è la rubrica di Verde nata per promuovere un nuovo reading code. Ogni settimana un racconto inedito di un autore diverso che cercherà di farvi ridere, divertirvi o semplicemente imbarazzarvi.
Carta, forbice, sasso è la seconda Morra che Flavio Ignelzi gioca con noi e il suo ultimo Casual Friday (è venerdì, rilassati, Flavio continuerà a scrivere per Verde). La fotografia, dal progetto Where is my mind?, è di Federico Arcangeli.
Che la puzza di metallo e vernice e saldature ti s’infila nelle narici e t’arriva a incendiare il cervello. Io non so proprio come fanno a campare quelli che lavorano qui dentro, non lo so proprio.
Esco all’aperto e m’accendo una Marlboro che il fumo della sigaretta è meno cancerogeno dell’aria dentro al capannone, mi ci gioco le palle.
Non faccio in tempo a fare due tiri che il boss delle carrozzerie, che non è un modo per sfotterlo, è proprio il nome che s’è scelto, com’è scritto sull’insegna luminosa al neon che ostenta pure il faccione sbiadito dal sole di Marlon Brando con le guance gonfie di ovatta del Padrino di Coppola, dicevo che il boss delle carrozzerie mi s’avvicina smargiasso nella sua tuta consunta blu pavone.
Il pezzo di carta che ha in mano riporta le sue impronte digitali parziali e non promette niente di buono, mannaggialaputtana.
Mi fissa con aria di sfida e fa finta di leggere da quel foglietto anche se sa tutto a memoria, è tutta scena.
Recupera una Diana dal taschino della tuta e mi chiede l’accendino, innesco la fiamma e aspetto che dia miccia al tabacco prima di spararmi le cifre.
Continua a temporeggiare.
Lo fa per creare suspense, come al Grande Fratello quando devono dirti il nome di chi ha perso al televoto e deve abbandonare la casa.
Mi mostra la cifra sulla pagina del preventivo con la stessa tracotanza di un campione di Texas Hold ‘em a cui tocca rivelare la mano vincente.
Il numero che leggo è talmente alto che mi prende un colpo e comincio a tossire fumo e bestemmie. Mannaggialaputtana. Mannaggialaputtanabestia.
Gli sfilo il foglio di carta dalle dita e scatto a prendere la macchina di cortesia, una Grande Punto avvelenata di sudore acido e Arbre Magique al pino. Metto in moto e sgommo verso casa della troia per farmi dare tutto, fino all’ultimo centesimo. Perché lo so che è stato il figlio a farmi lo sfregio alla macchina, capellone di merda. Mannaggialaputtanabestia.
Entro da Samantha con la acca e vengo accolta dall’odore dello shampoo ai mirtilli, dal ritmo caraibico e dallo sferragliare delle forbici.
Tutte e tre le poltrone sono occupate: una ottuagenaria con l’acconciatura glicine celata dal casco, una ragazza con l’alluminio nei capelli e un’altra con la mantellina e la chioma bagnata. Sui divanetti della sala d’aspetto una milfissima, abbronzatissima, truccatissima, biondissima con ricrescita fuori controllo, sfoglia distrattamente Vanity Fair evitando accuratamente ogni riga di testo.
Non dico niente e aspetto sull’uscio, lasciandomi avvolgere dall’ultimo singolo di Enrique Iglesias che Samantha con la acca ha deciso di far ascoltare a tutto il vicinato.
Lei finalmente mi vede e mi viene incontro, brandendo forbici e sarcasmo.
Mi saluta ricordandosi il mio nome e sottolineando subito dopo che è un bel pezzo che non mi faccio viva. Poi mi esamina i capelli e cambia atteggiamento all’istante.
Capisce che non l’ho sostituita con un salone concorrente, capisce che l’ho sostituita col lavandino di casa.
Mi mente dicendomi che mi trova benissimo e mi chiede se sono venuta per prendere un appuntamento, che ormai lei lavora solo su appuntamento, e che se mi affido a lei mi farà cambiare testa.
Le rispondo che non sono venuta per me, ma per mio figlio.
Lei mi fissa spaesata e io mi spiego meglio. Le chiedo se se lo ricorda, con i capelli lunghi, per il quartiere. Lei annuisce con il capo. Le racconto che per sbaglio gli ho tagliato i capelli. Le sottolineo per sbaglio, come se si potessero tagliare per sbaglio i capelli, e come se fosse la verità. Lei annuisce ancora.
Le chiedo se può farmi il favore di aggiustargli il casino che ho combinato. Aggiungo anche un per cortesia.
Lei si scioglie in un materno sguardo di comprensione e dice che anche se non fa tanti uomini, per me non ci sono problemi.
Devo solo fissare un appuntamento, continua indicando con la punta delle forbici l’agendina sul bancone.
Ogni volta che vengo a trovarlo mi rendo conto che è perché sto passando un momento difficile.
Ogni volta che vengo a trovarlo razionalizzo che non l’ho mai conosciuto perché se n’è andato che avevo quattro anni e il mio ricordo posticcio coincide con le foto sulla credenza, in particolare con la polaroid in cui mi tiene in braccio e sorridiamo entrambi all’obiettivo, e cioè a mia madre che la stava scattando.
Ogni volta che vengo a trovarlo mi rendo conto che vengo a far visita alla mia coscienza, per aggiungere una fila di mattoni al muro che mi sono costruito attorno, per smuovere qualcosa nello stomaco, per spremere qualche lacrima.
Mia madre è felice, quando ci vengo, ma io non glielo dico quasi mai. Men che meno questa volta, dopo quello che m’ha fatto.
Se n’accorgerà comunque, perché trova un altro sassolino sul marmo. Seguo la tradizione ebraica, ashkenazita m’ha detto qualcuno, non perché mio padre fosse ebreo, ma perché mi piace l’idea che i sassi non appassiscono come i fiori, i sassi restano lì, per sempre.
Ne cerco sempre di belli, per strada o nei giardini pubblici. Quando vado al fiume faccio incetta. Cerco quelli piatti e lisci, tipo quelli che si lanciano al rimbalzo sul pelo dell’acqua.
Li conservo a casa, in una scatola, e poi ne scelgo uno da portare qui, sulla tomba di papà.
Ce l’ho in tasca, il prescelto. Levigato, arrotondato, grigio come le nuvole quando c’è pioggia.
Lo prendo con la mano sinistra, come vuole la tradizione, e lo appoggio sul marmo, appena sotto le date di nascita e morte, accanto agli altri sassi. Adesso ne conto a decine, il custode del cimitero sa che non deve toglierli.
So che è un gesto che mi fa stare bene, e questo è tutto.
Non so che in questo preciso istante, l’istante in cui il sasso tocca il marmo, una Grande Punto senza revisione che procede a velocità folle sulla tangenziale ovest prende una buca, sbanda, gratta quaranta metri di guardrail e finisce fuori strada. Non so neanche che il conducente perde la vita. E non so che molti dei miei problemi muoiono con lui.