Casual Friday (qui e su Facebook) è la rubrica di Verde nata per promuovere un nuovo reading code. Ogni settimana un racconto inedito di un autore diverso cercherà di farvi ridere, divertirvi o semplicemente imbarazzarvi. È venerdì, rilassati!
Kriss Rifurgiato vive a Roma. Autore freelance, ha lavorato in programmi di approfondimento culturale per Radio3 Rai e collaborato alla stesura di sceneggiati radiofonici per Radio2 Rai. Con Libraduepuntozero pubblica nel 2013 Canto di ceneri e spighe, silloge poetica che raccoglie i versi del periodo europeo.
Cinque uomini per Chinasky è il suo primo racconto per Verde. Fotografia di Elisa Piatti.
1. Chinasky è fottuto
Non dovevano prendersela con lui, Chinasky andava lasciato in pace.
Centocelle, Alessandrino, Torre Maura: nessuno sapeva niente.
Il sospetto che fossero stati quel branco di figli di puttana lo ebbi da subito. La cosa divenne certa quando seppi che la Porsche Carrera 4 di Michele Di Caso era andata a fuoco.
Io e Di Caso siamo molto diversi, però una cosa in comune ce l’avevamo: eravamo calciatori, giocatori di tutto rispetto, almeno per una serie minore.
Perché non sono arrivato in Serie A? Ho smesso di chiedermelo da tempo anche perché la risposta è semplice: sono sempre stato una testa di cazzo. Fumo e bevo troppo e mi allenavo soltanto quando ne avevo voglia, cosa che, a dire il vero, non capitava molto spesso. A dirla tutta, anche in Serie A ci sono tante teste di cazzo ma, nello sport come nella vita, ci sono teste di cazzo che ce la fanno e teste di cazzo che non ce la fanno. Io appartengo al secondo gruppo. Comunque con il calcio ci campavo alla grande. Anche se giocavo lontano dagli splendori della serie maggiore guadagnavo bene: i soldi per me non sono mai stati un problema.
Ero un attaccante: centravanti, il classico ariete, molta potenza e non troppa tecnica. Però di gol ne ho sempre fatti tanti.
I miei compagni di squadra dicevano che sono un uomo glaciale, uno che non ha sangue nelle vene. In realtà nessuno di loro sapeva granché di me, lo pensavano soltanto perché dagli undici metri ero infallibile. Trenta rigori ho battuto negli ultimi tre campionati, ne ho segnati ventinove. Il trentesimo lo parò Michele Di Caso una domenica pomeriggio di quattro anni fa.
Giochiamo fuori casa. Che partita del cazzo!
Pioggia a dirotto, campo pesante, una poltiglia di merda fangosa. Ci rompiamo le ossa, non facciamo che pestarci dal calcio d’inizio al fischio finale.
Quindicesimo del secondo tempo, partita inchiodata sullo zero a zero. Dal ring del centrocampo parte un lancio sulla destra.
È lungo ma il pallone toccando terra si pianta nel fango. Un mio compagno riesce a raggiungerlo, tre tocchi e cross. Mischia in area. Sono stretto nella morsa dei due centrali della difesa, due bastardi che non mi hanno mai mollato. Riesco a liberarmi, gomitata al costato al primo, pestone al secondo.
Il cross è perfetto. Stacco per colpire di testa, non trovo il pallone: il numero 3, il tipo al quale ho rifilato il pestone, mi scaraventa per terra. Rigore. Proteste. L’arbitro viene accerchiato ma è irremovibile.
I miei compagni non si creano nemmeno il problema, si allontanano.
Prendo il pallone e lo posiziono sul dischetto. Tre passi indietro, rincorsa breve.
Silenzio.
È in questo momento che un rigorista si caca sotto. Non io, è sempre la stessa storia, è soltanto un rigore, ne ho battuti un fottio.
Guardo dritto negli occhi Michele Di Caso che ondeggia sulla linea di porta. Rincorsa. Un istante prima di colpire il pallone con il destro mi fermo, è soltanto un attimo, una frazione di secondo ma mi serve per capire da quale lato si tufferà il portiere. Di Caso è già proteso verso destra: perfetto – penso- lo tiro alto, centrale, potente sotto la traversa. Imparabile.
No: il campo è uno schifo, il piede d’appoggio va a puttane, perdo l’equilibrio. Un tiro inguardabile, una caramella, un rasoterra centrale che sbatte contro il piede del portiere completamente spiazzato. La palla rimane in area, un difensore la spazza via.
Merda. Abbasso lo sguardo, poi incrocio quello di Di Caso. Nei suoi occhi vedo paura, in quelli del numero 3 invece brilla un che cazzo hai fatto!?!
Zero a zero, finisce pari.
Sono cazzi. Anche se ancora no lo so, ho condannato a morte il mio migliore amico. Chinasky è fottuto.
2. Il barone
Lo studio dell’avvocato, il barone – così lo chiamavano e non ne seppi mai il motivo,quell’individuo non aveva nulla di nobile – era in centro, ovviamente.
La segretaria era una bella fica sulla trentina. Si vedeva che non era mai stata scopata come si deve. Si capiva dallo sguardo. Se l’avessi conosciuta prima avrei risolto il problema, ma purtroppo non avevo più il tempo per quel genere di cose. Un vero peccato.
Continuavo ad osservarla con sguardo famelico, immobile al centro della stanza, muto.
Capelli a caschetto biondi, con la frangetta. Occhiali sottili posati sulla punta del naso all’insù. Décolleté a dir poco generoso, belle cosce. Stereotipo, il classico tipo di segretaria da fantasie sessuali maschili: il barone era sempre stato una persona banale.
«Devo parlare con l’avvocato».
«Impossibile. Dalle quattordici alle sedici è in pausa pranzo».
«Insisto».
«Ha un appuntamento?»
«No».
«E allora non insista».
Donna combattiva, decisa. Se l’avessi conosciuta prima l’avrei spezzata.
«È importante», i miei occhi si tuffarono nell’abisso della scollatura, «molto importante».
Mi feci avanti, posai pesantemente le mani sulla scrivania. La fissai avvicinando il mio viso al suo. Eravamo a pochi centimetri, sentivo il suo profumo. Quasi dimenticavo il motivo per il quale ero lì.
Ritornai in me.
«Prendi quel cazzo di telefono!»
Sgranò gli occhi, spaventata. Ne ebbi una sensazione sgradevole, provai schifo nei confronti di me stesso. Sono un buono, normalmente avrei chiesto scusa ma quello non era un giorno normale.
Pallida in viso compose un numero.
L’avvocato era disteso su un divano di pelle, un bel divano, di quelli costosi, di quelli da avvocato con studio a vetri all’ultimo piano di un palazzo in centro.
Mi osservava assonnato, le maniche della camicia svoltate sino al gomito, il nodo della cravatta allentato.
«Figlio di puttana! Lo sai che se sei ancora vivo è soltanto grazie a me? A dirla tutta anche la signorina si è battuta… si sa che quel frocio ha un debole per te».
«Grazie».
«Grazie un par de cojoni! Abbiamo perso un sacco di soldi, quelli ti volevano fare la pelle… per fortuna li ho fatti ragionare».
«È stato un incidente, colpa del campo… sono scivolato».
«E secondo ce ne fotte qualcosa a noi? Duemila euro ti sei messo in tasca e noi ne abbiamo scommesso trentamila sulla vittoria. Per non parlare dei seimila che abbiamo sganciato per comprarci l’arbitro, il numero 3 e quel cazzo di portiere… mortacci vostra!»
«Le porgo le mie scuse, non succederà più».
«Grazie al cazzo che non succederà più! La prossima volta quelli non si accontenteranno di Chinasky. Ti è andata di lusso, grazie a me. È stata mia l’idea».
«Lo immaginavo barone e la prego di voler accettare questo piccolo omaggio… Lagavulin 21 anni… special reserve… il suo preferito se non sbaglio».
«Ma vaffanculo! Lo sai quante bottiglie mi facevo con tutti i soldi che hai mandato a puttane?»
Mi osservava con lo sguardo di un padre arrabbiato che ha già deciso di perdonare il figlio. Disgustoso. Per fortuna mio padre non mi ha mai guardato così. Quando si arrabbiava ce ne voleva per farlo calmare. Di sicuro non ci sarei riuscito con una bottiglia di whisky, forse con un buon libro. Mio padre non beveva ma divorava libri, uno dietro l’altro.
«Vado a pisciare. Versa, i bicchieri sono lì».
Indicò una vecchia radio. Non me ne intendo di queste cose ma credo fosse una radio anni Trenta. Mi avvicinai perplesso, la studiai, poi afferrai le due rotelle, quella del volume e quella della frequenza. Tirai verso di me. La radio si aprì come un armadio svelando un minibar. È un vero sacrilegio – mi dissi – che un uomo così volgare abbia la possibilità di circondarsi di oggetti tanto belli.
Tirai fuori dalla tasca dei jeans una boccetta. La mano tremava. Svitai il tappo e la svuotai in uno dei due bicchieri, poi versai il whisky.
Il Lagavulin ha un forte odore di torba, non se ne accorgerà – sperai.
Sentii lo sciacquone. L’avvocato mi venne incontro mentre si tirava su la lampo.
Gli porsi il bicchiere.
«Sono mortificato, mi scuso ancora barone».
Brindammo. Si buttò pesantemente sul divano, pronto a gustarsi il suo drink. Lo osservavo mentre avvicinava le labbra al bicchiere. Sentivo il cuore scoppiarmi in petto. Non era paura, era emozione.
Lo vuotò d’un fiato.
Mi avvicinai, presi l’iphone, traccheggiai un istante recuperando una pagina internet.
«Mi permetta di leggerle una cosa. Sa, io non ho studiato, non è niente di che. Wikipedia».
Mi osservò dubbioso.
«Il cianuro è un anione di formula chimica CN che deriva dalla dissociazione dall’acido cianidrico. Una delle proprietà chimiche del cianuro, utile per capire tanto la sua tossicità quanto la sua utilità in lavorazione minerarie, è la capacità di combinazione con metalli come il ferro, l’argento e l’oro. In tutte le cellule procariote o eucariote, di batteri, funghi, piante, animali e compreso l’uomo, una funzione vitale è la respirazione. Una delle molecole indispensabili per la respirazione cellulare è l’enzima citocromo – c ossidasi, che possiede al centro della sua complessa struttura un atomo di ferro. Il cianuro che entra nella cellula ha il potere di complessare il ferro e, di conseguenza, di bloccare l’attività dell’enzima causando la morte della cellula per soffocamento…»
L’avvocato sbarrò le palpebre, fece per alzarsi. Mi bastò spingerlo lievemente per rimetterlo comodo sul divano. Gli agitai l’iphone davanti agli occhi, continuai.
«…per tale ragione il cianuro è un veleno per tutti gli esseri viventi, anche in dosi molto piccole».
Accennando un sorriso lo guardai dritto negli occhi. «Le assicuro barone che sono stato molto generoso con le, il suo whisky è stato corretto come si deve…»
Cercò ancora, pateticamente, di tirarsi su mentre veniva percosso da violenti spasmi. Iniziava a contorcersi.
«All’inizio l’individuo avverte una sensazione di vertigine ed agitazione, seguita da tachicardia, cefalea e senso di costrizione toracica. Vi è anche tachipnea, aumento della frequenza respiratoria, per stimolazione diretta dei recettori da parte del cianuro».
Era ai piedi del suo bel divano, rantolava con entrambe la mani al collo.
«L’avvelenamento da cianuro è dannoso principalmente per gli organi vitali, cuore e cervello, che per funzionare nel modo corretto dipendono largamente dall’ossigeno; è per questo che i primi sintomi di avvelenamento appaiono a livello neurologico e cardiovascolare. A causa dell’esposizione a significativi livelli di cianuro e in relazione alla via di esposizione, le vittime possono diventare incoscienti anche in pochi secondi e senza trattamento adeguato la morte può avvenire in pochi minuti».
Non credo abbia sentito la parte finale…
3. Il texano
Lo chiamavano texano perché portava sempre stivali a punta.
Di lui avevo paura, al solo pensiero di affrontarlo mi veniva il voltastomaco. Non sono un codardo ma stiamo parlando di bestione di un metro e novantacinque per centoventi chili. Lo avevo visto in azione diverse volte: Di una cattiveria brutale, inumana.
Con il texano rischiavo di brutto; con l’avvocato era stato facile e, anche se le cose si fossero messe male, avrei potuto ucciderlo a mani nude. Il barone era un rammollito ed io ero comunque un atleta, intossicato ma pur sempre un atleta.
Con il texano era diverso, con lui ci sarebbe voluto il fucile a pompa ma non avevo il tempo di procurarmelo. Quanto ci avrebbe messo la segretaria a scoprire il suo capo, chiamare gli sbirri e metterli sulle mie tracce?
Avevo poco tempo e non avevo un piano.
Il texano lavorava in una officina all’interno di una sfascio lungo la Casilina, all’altezza di via dell’aeroporto di Centocelle. Truccava motori di macchine, scooter, moto: in molti, grazie al suo lavoro, avevano fatto incetta di libretti nelle corse clandestine dell’Anagnina.
Quando a piccoli e timorosi passi varcai la soglia dell’officina e vidi un paio di stivali uscire fuori da una macchina senza ruote, su una pedana sospesa da terra di circa mezzo metro, mi illuminai in viso e non ebbi un attimo di esitazione. Mi avvicinai alla pulsantiera. UP diceva una leva con una freccia che puntava in alto. A me interessava quella che puntava in basso: DOWN.
Spinsi la leva. Aveva due velocità: SLOWLY e FAST. La portai su FAST.
La pedana, velocemente, molto velocemente, si abbassò. Il texano ebbe soltanto il tempo di masticare un ma che cazzo?!?… poi più niente.
Il giochino del up and down lo feci diverse volte: mi piaceva scoprire che ogni volta che sollevano la pedana, del texano, come era da vivo, rimaneva sempre meno. La parte che mi dava più soddisfazione era il volto. Quando finii con lui assomigliava alla poltiglia fangosa di quel campo del cazzo, la domenica che condannai a morte il mio amico Chinasky.
Anche il texano era andato. Con lui avevo avuto fortuna. Dio lo vuole – pensai alla maniera templare – seduto su una pila di copertoni, fumando con gusto una sigaretta mentre mi godevo lo spettacolo del corpo maciullato di quella merda di uomo.
4. L’intervista
La luce della telecamera mi spara direttamente in viso. All’inizio non ci ho fatto caso ma adesso, dopo mezz’ora, inizia veramente a rompere i coglioni.
Lo faccio presente al tizio che mi sta di fronte, un tipo dallo sguardo veloce, i capelli arruffati e due bei baffi che porta alla messicana. Il nome non lo ricordo, so soltanto che è uno con le palle. Lavorava per Le Iene, seguivo sempre con molto interesse le sue inchieste. Ho stima di lui, per questo ho accettato di incontrarlo.
Oggi non è vestito da iena, non lavora più per loro. Prepara una nuova trasmissione. L’intervista che sta realizzando serve per la puntata pilota.
Dopo il barone e il texano mi chiede di raccontargli degli altri. Benissimo, vado dritto al dunque, l’intervista mi ha stancato. Mi annoio facilmente.
Maurizio Lo Parco, il tossico, lo bruciai vivo. Lo intercettai a villa Gordiani, stravaccato sulla solita panchina dove andava a farsi ormai da un paio d’anni.
Era completamente andato. Non ci volle molto a convincerlo di seguirmi nel garage di casa mia. Gli dissi che per ringraziarlo di essere ancora vivo gli regalavo una dose. Raggiante in viso, raggiante come può esserlo uno zombie, mi chiese se poteva spararsela subito, lì nel garage.
Mi bastò attendere che se ne andasse in orbita, poi gli feci una bella doccia di benzina e diedi fuoco.
Non credevo che un uomo ci mettesse così tanto a morire arso vivo. Al cinema avviene tutto in fretta e invece il tossico ce ne mise prima di spegnersi.
Rido. La ex Iena, con voce calma ma con le pupille che palpitano di sdegno, mi dice di andare avanti. Ok.
Gli ultimi due della lista erano Maurizio Giovannelli alias la signorina e Giuseppe Prestigiatore. Anche con la signorina fu molto semplice.
«Ti faccio un bocchino per sdebitarmi», gli dissi strizzando l’occhio.
Non se lo fece ripetere mezza volta e lo invitai nella mia villetta. Nemmeno il tempo di chiudermi la porta di ingresso alle spalle che aveva già tirato fuori il cazzo. Glielo strappai via a morsi. L’idea era quella di lasciarlo morire dissanguato ma ci metteva troppo tempo ed io non ne avevo.
Lo decapitai.
Iniziai con il coltello che normalmente usavo per tagliare il pane. La lama si spezzò quando, dopo aver reciso i muscoli, incontrai la vertebra cervicale. Non mi persi d’animo, presi li seghetto alternativo che usavo per i lavori di bricolage, la mia passione.
Anche in questo caso non fu facile come fanno vedere al cinema ma ebbi successo. Alla fine del servizio palleggiavo con la sua bella testolina di cazzo.
In vita mia avevo palleggiato con qualsiasi cosa ma mai con una testa. Venticinque palleggi, mica facile. Una testa è troppo irregolare, troppi spigoli, troppe protuberanze: zigomi, naso, mento. Ma io avevo talento…
Anche con Giuseppe Prestigiatore, l’unico senza soprannome ma con un cognome che avrebbe potuto tranquillamente esserlo, usai il seghetto alternativo: ci avevo preso gusto.
Entro nel dettaglio della decapitazione e la ex Iena mi fa un cenno. «Ok, va bene così!» In un attimo raccoglie tutta la sua roba e va via.
Sicuramente la pensa come i miei due compagni di cella. Dicono che ho esagerato, che non mi sono regolato.
Non sono d’accordo e, ci tengo a sottolinearlo, non sono pentito.
Cinque uomini per il mio migliore amico!
Cinque uomini di merda per una brava bestia!
Cinque uomini per un cane!
Cinque uomini per il mio pastore tedesco!
Cinque uomini per Chinasky!