CASUAL FRIDAY #46: CAMPO ECHO

the_confession

Serena Mazzini, The confession

Casual Friday (qui e su Facebook) è la rubrica di Verde nata per promuovere un nuovo reading code. Ogni settimana un racconto inedito di un autore diverso cercherà di farvi ridere, divertirvi o semplicemente imbarazzarvi.
Oggi c’è
Max Cabrerana ft. Capitan Dino & i suoi Sauri con Campo Echo.
Fotografia di
Serena Mazzini (The confession).

Duemila ore di filmati, una squadra di sedici esperti che li visionano h24, trecentosessantadue confezioni di fazzolettini di carta. Insomma, ce la stiamo mettendo tutta per combattere il terrorismo.
Il Colonello Tobias Bishop, durante la conferenza stampa del ritrovamento, nell’ultimo covo di Bin Laden, di materiale pornografico sospettato di contenere importanti messaggi in codice.

C’è sempre una specie di sibilo alla fine. È sempre lo stesso fischio che rimane in sottofondo. È il tappeto acustico della colonna sonora della tua vita.
D’ora in avanti sarà così.
A volte, all’improvviso, c’è un tintinnio. Altre volte giuri di aver sentito il campanello di casa, lo squillo di un telefono.
Un assolo improvviso.
Quando dormi è un battito del cuore che ti rulla nell’orecchio.
Ti giri verso qualcuno e chiedi Sì? Che c’è? Puoi ripetere?
Si chiama sfondamento della membrana timpanica. Arrivi a un punto che non riesci nemmeno più a sentire le domande che ti fanno.Te le devono scrivere, col pennarello, su una lavagnetta.

Visualizza una cella, dove il tempo è scandito soltanto dal pranzo e dalla cena. Spesso non distingui l’uno dall’altra.
Visualizzala bianca e luminosa. Fuori non c’è il sole, fuori non piove, non è giorno né notte.
Giorno è il tetto di metallo che si scalda, e ti devi appiattire sul pavimento per trovare un po’ di refrigerio. Quando ti alzi hai la faccia che è il negativo della forma irregolare del cemento grezzo.
Notte è il buio del tuo buco del culo. E a volte neppure quello, a causa delle ispezioni corporali periodiche. Anche quando caghi o pisci nei recipienti che ti danno le guardie, qualcuno ti osserva.
In caso di notte, arrotolare la coperta su se stessi.

Adesso aggiungi in questo idillio un tizio in tuta arancione.
Cromaticamente, lo so, è un cazzotto in un occhio.
Il tipo in tuta arancione, che poi sono io, è sceso dall’aereo e ha la bocca coperta da una maschera.
Per intenderci: di quelle bianche che usano i chirurghi.
Non la indossa per paura delle malattie, né perché gli puzza l’alito. È per evitare che faccia le linguacce brutte agli altri prigionieri in tuta arancione, maschera da chirurgo, mani legate, cappello di lana sulla testa, occhi bendati, tappi negli orecchi.
In fila. Sotto tiro. Nessuno sa in quale parte del mondo si trova. È più o meno equidistante dieci ore d’aereo dall’ultimo aeroporto da cui ricordo d’essere decollato.
Potrei cercare di farmi un’idea del perché sono qui. Ma non ce l’ho.

Se avete un po’ d’immaginazione, c’è il caporale pinco e il soldato pallino, entrambi cresciuti in un sobborgo di una città di alcune migliaia di abitanti. Una vita parcheggiata davanti alla tv. Padri alcolizzati. La scuola era un tormento. I compagni: gli aguzzini. La carriera militare. Insomma, ci sono il caporale pallino, il soldato pinco che provano un gusto incredibile a fare quello che stanno facendo. È l’unica cosa che li gratifica, se si escludono le seghe davanti allo specchio.
E la gara di bestemmie in mensa.

«Quest’affare», dice il caporale pallino, «quest’affare funziona se lo metti sotto per due ore e poi lo lasci un po’ riposare. Altrimenti», chiarisce il caporale pallino, «al rumore del martello pneumatico quello stronzo ci fa l’abitudine».
«Un po’ come l’antibiotico con i batteri, caporale?» Fa il soldato pinco. «Che poi diventano insensibili all’antibiotico?»
«Bravo» dice il caporale, «si vede che afferri le cose al volo. Calzerebbe più un esempio tipo come quello della madre del tenente Caio che a forza di prendere cazzi neri di trenta centimetri, poi un cazzo di cinese è come un salame lanciato in corridoio. Ecco».

Vi dico che il rumore di martello pneumatico, ha ragione il caporale, diventa come il suono continuo del traffico nel dormiveglia, il frusciare delle foglie in autunno, un ruscello montano, lo scrosciare della pioggia, soltanto un poco più forte di un centinaio di decibel. Alla fine, se ti concentri, se te lo sparano in cuffia per ore, non ci fai quasi più caso.
Dico: quasi.
Fidatevi, è peggio il rumore di un motore a sei cilindri con marmitta non catalitica o il rombo di un Boeing 747. Io, per quanto mi riguarda, apprezzo di più il tosaerba a benzina e motore a scoppio, mi sa di prato verde.
Quello scoppiettare, quando lo mettono in moto, non lo so, mi ricorda qualcosa che ha a che fare con la mia infanzia. Al minuto duecentoquarantacinque si sente una donna che dice da lontano Amore, è ora di cena e allora capisci che la registrazione del tosaerba ricomincia da capo.
Qui incappucciato, con le cuffie, sdraiato a terra, ti fai questi viaggi sonori della madonna.

A proposito di Madonna. Intendo la cantante. Io l’ho scoperta qui, nel campo di prigionia chiamato Campo Echo.
Sì perché secondo i gusti musicali di chi ti interroga, ascolti una compilation diversa.
C’è chi preferisce rumori d’ambiente e mantra tritura orecchie meccanici e chi invece vuole farti ascoltare i suoi brani del cuore.
Canzoni e rumori invece di pinze, corde, catene e fili elettrici scoperti. Le canzoni non lasciano il segno, almeno sulla pelle intendo. A parte quel tic di ripetere Eh? Puoi alzare la voce? Cosa? quando parli con qualcuno.
E quel sottofondo costante di fischi e campanellini.

Ehi, ehi ehi, il nuovo singolo dei R.E.M in esclusiva per voi qui a Campo Echo, ascoltatevelo per le prossime sei ore.
Dico: sei ore!
Da Campo Echo buongiorno a tutti, iniziamo la giornata con una sferzata d’energia, eccovi i Metallica. Tutta la discografia e poi si ricomincia, e ricordate: se l’audio è troppo alto, tu sei troppo vecchio!

Ora dal centro raccolta beduini Campo Echo, Frank “The Voice” Sinatra cantaaaaaa My Way. Subito dopo My Way. Ascolto trentadue della cinquantacinque versioni ufficiali esistenti al mondo (ma non quella di Sid Vicious).
Frank Sinatra e quella stramaledetta voce che scivola come olio su velluto.
O come sangue su velluto.
Immagino la voce di Sinatra.
Immagino tutti i duetti di Sinatra.
Immagino tutti i soldi di Sinatra.
Immagino tutte le attrici e modelle che Sinatra si è scopato.
Adesso tu immagina me che mi faccio una sega in cella, con le guardie che fischiano e fanno commenti sulle mie misure.

C’è un tizio che adora il Black Metal Satanico. Alza le braccia facendo il segno delle corna, scuote la testa.
Noi veniamo torturati ogni giorno. Noi non facciamo quei versi disumani.
Il tizio dice che sono tutte frasi sataniche. Contro dio, contro i genitori, contro tutto.
Anche per lui alla fine lo stesso discorso: perforazione del timpano.
L’interrogatorio a quel punto diventa un dialogo tra sordi.
Il militare satanico viene congedato in modo permanente per cause di servizio.
Adesso è costretto ad andare in giro con l’apparecchio acustico come un vecchio di novant’anni.
Come me.

Bruce Springsteen. Credevo fosse un ex presidente o il fondatore di una startup romana. E invece.
Se la cava mica male con la voce e la chitarra!
E quando partiva la roba funky, soul e rap, capivi che dall’altra parte, oltre il tuo cappuccio di stoffa sudore e saliva, era un tipo di colore a dirigere la festa.
Chiedo al torturatore di turno Ma quello che canta con la voce da finocchio, come si chiama?
«Perché, ti dà fastidio?»
Me lo fai sentire da tre giorni, almeno dimmi il nome, no?
«Michael Jackson».
È il re del pop.
«Non lo sopporti, vero?»

In quel periodo andava alla grande una certa Winehouse. Giuro che l’avrò ascoltata due settimane intere, per almeno quindici ore consecutive. È lì che mi sono detto: giuro che se esco di qui faccio fuori tutti questi che cantano.
Però ognuno ha le sue debolezze e lì a Campo Echo avevano capito che io, il signor zeroottantanove (dal numero della mia cella), non potevo sopportare un certo Capitan Dino & i suoi Sauri.
Io, io se c’è una musica che mi fa star male è quella lagna di Capitan Dino. Avrei fatto qualsiasi cosa per non ascoltarla. Anche confessare gli attentati alle torri gemelle, la caduta del muro di Berlino, la strage di Utoya, il disastro di Fukushima, tutto. Per questo poi alla fine non mi fanno ascoltare altro.

Capitan Dino & i suoi Sauri cantano: “Non fermeremo mai la musica, perché l’uomo non è una macchina elettrica.” Mi mordo le labbra per l’incazzatura, mi sgorga sangue dalla bocca, una chiazza scura si allarga attraverso il cappuccio di tela di sacco. Non c’è bisogno che io veda Dino, ho già in mente com’è fatto. Camicia a fiori, guance molli, doppio mento, calvizie incipiente e tintura per i capelli ai lati, colore rosso emorroidi e merda secca. E quel sorriso sereno, compiaciuto, che giuro, non aspetto altro di trasformare in una maschera di paura e pietà. Questo è il solo motivo che mi spingere a resistere qui, in questo gabbia di sadici pazzi musicofili.
Dico: basta!

Alla centesima canzone che fa “Amore mio non ce la faccio più, nell’infinito dei tuoi occhi blu” dico: Basta! Dico: chiedetemi qualsiasi cosa e anche se non la so, improvviso.
A quel pazzo che mi spara in cuffia la musica di Capitan Dino taglierei le palle e gliele metterei al posto degli occhi. Userei i suoi occhi come perle anali.

La chiamano Operazione Apriti Sesamo, come se noi in testa avessimo un tesoro d’informazioni che a forza di bombardarci di canzoni e rumori poi alla fine ci mettiamo pure noi a cantare.
Lo confesso: qualche cazzata in vita mia l’ho fatta.
Tipo guidare senza patente.
Un volta ho rubato una bicicletta.
Ho mandato a fare in culo mio padre, almeno tre volte.
Ma come ci si mimetizza tra i turisti, con una bomba, in un autobus, come si taglia la gola a un prigioniero, come si dirotta un aereo, chi sono Abu, Alì, Mohamed, Khalid qualcosa, ne so quanto ne sapete voi.
Mi hanno scambiato per qualcun altro. Mi sono trovato al momento sbagliato, nel posto sbagliato, sul lato sbagliato della strada, all’incrocio sbagliato.

Giuro, sto per confessare pur di far smettere Capitan Dino & i suoi stramaledetti Sauri quando arriva un uragano che risolve tutti i problemi in un colpo solo.
Quei disastri naturali che i metereologi chiamano col nome di una ex moglie o di una suocera. Non me ne rendo conto per il rumore dei venti o della pioggia, me ne accorgo quando il tetto si solleva come un pallone aerostatico, le pareti si aprono come se fossero ali di airone pronte a prendere il volo.
Tutto intorno, qui, è una trottola di cose e persone.
Vedo il cielo per la prima volta, da mesi. Grigio, sfumato di nero, venato di fulmini.
Immaginate un vortice di oggetti che vi girano intorno, le guardie che a fatica riescono ad aggrapparsi a pali, reti, a qualsiasi cosa resista alla potenza del vento. E non fanno più caso a noi, quei tipi arancioni, che eravamo lo scopo della loro esistenza qui nel Campo Echo.
Spaesati e tormentati da vento e fulmini. Come se alla fine deve esserci sempre qualcuno o qualcosa che ti rompe le palle nella vita.
Un gruppo di figure arancioni. Quando ci vedi in cielo sbracciarci sembriamo tanti aquiloni colorati arancioni. Un cazzotto in un occhio contro il cielo cupo.
Tutta questa scena apocalittica, immaginatevela con un sottofondo di un fischio costante, che non è quello del vento, ma è il vostro timpano rotto che suona come una radiosveglia che non riuscite a spegnere.
Mai.

In qualche modo fuggiamo. Ci nascondiamo nella giungla. Quelli di noi che i militari non riescono a ritrovare, adesso sono sparsi per il mondo.
Ognuno con la sua vendetta privata da consumare.
La mia, ecco…

Risolvere la storia con quella Winehouse è stato facile. È bastato dire: «Ehi bella, vieni al pub che ti offro da bere quanto vuoi. Fino a morire».
Con Michael Jackson le cose sono state più difficili. Ho tentato di spacciarmi per minorenne, lui ovviamente non ci ha creduto, ma poi gli ho proposto di giocare al dottore.
Quel tale, Sinatra, l’ho cercato in lungo e in largo, però mi dicono che è morto da almeno vent’anni.
Metallica e R.E.M: ci sto lavorando. Springsteen e Madonna: bene, ci stanno pensando da sé.

Adesso mi trovo qui. Un milione di persone si sbracciano e cantano. Sotto al palco. Il ballo del Pepperepé imperversa.
Sembra un gay pride di monaci tibetani.
Il mio nuovo apparecchio acustico è spento. Della musica ormai ne ho fin sopra i capelli.
Vedo le bocche della gente che si spalancano.
Leggo i labiali. Stanno chiedendo a Dino e i suoi Sauri Meravigliosamente sua, Il tempio del nostro amore, Il Ballo del Pepperepé. Ancora una volta, fino alla nausea.
Capitan Dino & i suoi Sauri di merda salutano dal palco, raccolgono applausi e fiori. Per un momento, uno soltanto, il mio sguardo si incrocia con quello di Capitan Dino. E lui, Dino, davanti al microfono, con la chitarra a tracolla e la camicetta hawaiana non ci vede nulla di buono nei miei occhi.

Tra poco le luci si spegneranno, gli accendini e i display luminosi dei cellulari ondeggeranno nel buio e il pubblico intonerà le parole di Alle tre in piazza: “Penso a teee, amore nel tuo sguardo credo cheeee.”
Voi invece pensate a me che ho ascoltato questa canzone tremilaottocento volte, e tremilaottocento è una stima per difetto. Pensate a me e immaginate le facce di Capitan Dino & dei suoi tre fottuti Sauri mentre saltano in aria.
E già che ci siete, provate a immaginare il rumore che fanno tre volti che esplodono.

Max Cabrerana

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