
Anita Pankoff, Ragazza stanca
Casual Friday (qui e su Facebook) è la rubrica di Verde nata per promuovere un nuovo reading code. Ogni settimana un racconto inedito di un autore diverso che cercherà di farvi ridere, divertirvi o semplicemente imbarazzarvi.
Dopo il successo di 8×8, torna Paolo Gamerro con Le cose, un racconto oscuro e intricato che difficilmente vi farà rilassare: qualcosa sta cambiando nei venerdì di Verde? Come sta la scrittura di Paolo questa mattina? Come sta la rassicurante formula del Friday questo fine settimana? Come stanno i ch
Illustrazione di Anita Pankoff (Ragazza stanca).
La tipa con la polo e i capelli blu che mi sta servendo la coca al tavolo del bar del multisala (pochi minuti fa mi ha colto in flagrante mentre vomitavo l’anima nei cessi del cinema), mi ricorda vagamente Timi.
(Timi è una ragazza che ho conosciuto a Budapest sei anni fa. Ci sono stato tre volte a Budapest: le prime due a suonare, la terza a farmi un weekend lungo, doveva essere una minivacanza con mio fratello, che non è venuto per colpa di una cistite, e allora la minivacanza si è trasformata in una trasferta paranoica e solitaria, durante la quale non facevo che trascinarmi triste per la città con un nugolo di pensieri psicotici nella testa).
«Stai meglio?», mi chiede senza incrociare il mio sguardo e senza un reale interesse, io sorseggio la bevanda sgasata e le dico di sì, e che prima, quando sboccavo in bagno, mi era venuta una congestione causata dalla pizza troppo condita del Pizza Point e dall’aria condizionata gelida della sala.
«Dovrebbero tenere la temperatura più alta, è lo stesso vizio che hanno anche sui treni o in alcuni negozi…» continuo, ma tanto lei non mi presta attenzione, pulisce il bancone, conta i soldi in cassa, controlla accigliata qualcosa sul telefono, un messaggio di Whatsapp probabilmente, e mentre si sistema i capelli non riesco a smettere di fissarla perché sprigiona menefreghismo e indolenza, due cose che in una ragazza mi attirano tantissimo. La guardo sognante studiando una strategia per chiederle qualcosa.
(Timi, quella sera al Rocktogon, una disco rock in centro, se ne stava a bere da sola vestita di scuro, scazzata mentre tutti ballavano, e allora io, che ero già completamente fatto alle undici di sera per via di droghe sintetiche e una sfilza di bevande fluo, sono andato a parlarle, lei mi rispondeva a monosillabi cercando di mantenere un sorriso forzatissimo che trovavo irresistibile, fisso che le sarò sembrato il classico piacione italiano all’attacco, lei non sembrava aver voglia di star lì ad ascoltarmi ma si è addolcita un po’ quando ho cominciato a offrirle da bere tre o quattro superalcolici, dopodiché in taxi siamo andati a casa sua).
«Vuoi altro?» mi chiede lei, probabilmente notando che la stavo fissando.
«No va bene così, sto molto meglio, grazie…» Tossisco e mi guardo in giro.
«Bene…»
«Tutto bene, sì, grazie…»
«Sono quattro euro» mi fa, prende il bicchiere dalle mie mani per rimettersi a digitare sul telefono. Sto per dirle qualcosa ma non mi viene nulla, se lo facessi sarebbe una cazzata che mi farebbe sembrare ancora più goffo e ridicolo di quanto lo sono già stato, tanto vale finirla qui. Pago e mi accorgo che è quasi mezzanotte, al bar sono rimasto soltanto io, e la mia felpa della Vans è sporca di vomito e il sudore freddo incrostato sul collo e sulla schiena mi dà fastidio, devo pisciare ma non ho voglia di andare ancora in quel bagno, allora la saluto e la ringrazio e lei mi dice ciao ciao senza scomporsi, immersa nella routine del suo turno serale. Esco dal cinema, mi fumo una sigaretta e ingoio due pastiglie di emmedi che trovo nella tasca destra della mia giacca da vento della North Face.
(Timi viveva in un piccolo appartamento che le aveva concesso l’università, lontano dal centro, in una zona periferica. In Ungheria, mi spiegava, se frequenti con profitto e hai una buona media, ti danno la casa gratis per tutto il tempo del ciclo di studi, una cosa che in Italia ci sogniamo. Diceva, mentre preparava una tisana, che ormai erano già quasi due anni che era lì, in quel posto. Mi ha raccontato di quando i suoi si sono separati e allora è rimasta a vivere dalla madre, che però la picchiava, così è andata a stare dal padre, che pure la picchiava, non appena trovato un ragazzo si è trasferita nel suo monolocale, ma anche questo tipo era un violento e spesso la prendeva a cinghiate. Ci siamo messi a bere la tisana sul suo letto e nessuno dei due parlava, io ero ancora stordito e mi girava tutto, quando chiudevo gli occhi mi sembrava di volteggiare sulle tazze di Gardaland. L’appartamento di Timi era spoglio e lugubre. Non c’era nulla se non il divano letto, un piccolo televisore e una libreria senza libri. La cucina proprio non l’ho vista e non ho capito cosa studiasse. Abbiamo cominciato a baciarci ma nel giro di qualche minuto mi sono fiondato in bagno a vomitare).
È stata la scena del film. Sono andato a vedere Millennium: Uomini che odiano le donne (non l’originale, la versione di Fincher), e ammetto che nel momento in cui Rooney Mara (Lisbeth Salander) viene sodomizzata con ferocia dal suo tutore, mi sono sentito fisicamente male. Non mi accadeva da anni che una sequenza cinematografica mi segnasse, non so che cosa è scattato proprio questa sera, proprio con questa pellicola che di per sé non è nulla di che da ogni punto di vista, un thriller del tutto prevedibile, ma la questione forse non è il film. Sbadiglio e prendo altra emmedi che trovo nel cruscotto.
Guido sulla superstrada, nel buio della notte invernale, in bocca un saporaccio amaro che non riesco a togliermi nemmeno succhiando una Fisherman’s Friend extra forte dopo l’altra, nello stereo gli Hope Conspiracy, il mio stomaco è accartocciato, i muscoli si sono contratti, irrigidendosi dolorosamente, mi hanno assalito le palpitazioni, il tremore, il vomito, i brividi, lo stesso medesimo disgusto totale che sentiva Lisbeth mentre quell’orco disumano e vorace la penetrava da dietro, le urla strazianti della hacker mezza punk mezza raver di aspetto mi hanno dilaniato i timpani fino ad arrivare alla corteccia cerebrale, scorticandomela. Immedesimatomi in lei ho provato il suo stesso dolore, acutissimo, si è espanso sensorialmente in tutto il mio corpo, pervadendolo di sofferenza estrema. Il passaggio era per me in quel momento insopportabile. Mi sono dovuto alzare dalla poltroncina rossa con un senso di vertigine, e Dio solo sa come ho fatto a trascinarmi ansimando fino alla toilette dove sono arrivato trafelato, mi sono ficcato due dita in gola e nella mia testa le grida della poverina informatica rimbombavano ancora. Lei, magrissima, anoressica, emaciata, le ossa della sua schiena, le sue ginocchia.
Ho dormito abbracciato a Timi dopo il vomito. Ci siamo messi sul divano letto e siamo stati nella stessa posizione tutta la notte: io la abbracciavo da dietro, ero spossato, sentivo il suo corpo esile fondersi con il mio, sotto il piumone, nel sopore. Timi si è messa a piangere ad un certo punto, vicino all’alba, le ho chiesto c’è qualcosa che non va ? in inglese e nella sequenza successiva ci siamo baciati svestendoci ma senza fare sesso davvero, e mi ricordo di quel forte odore di patchouli, o forse me lo stavo sognando, o forse era Timi stessa, erano i suoi capelli corti blu, che adesso riesco a ricordare perfettamente, così come mi viene in mente il fatto che lei si sia meravigliata, nella scena seguente, in quella caffetteria disadorna dove abbiamo mangiato di pomeriggio tardi, del fatto che noi italiani abbiamo il portafogli così piccolo. Mi ha mostrato il suo, davvero grande, mi ha spiegato che dentro ci custodiva una specie di bigino, un bigino di scuola guida, che teneva sempre sulle ginocchia quando girava il volante e metteva la retro per entrare o uscire dai parcheggi. Se no mica se lo ricordava come si faceva ogni volta. Come ci fa a stare un bigino in un portafogli ancora me lo chiedo. Di quella notte e di quei giorni è quasi tutto sbiadito via, vuoi anche perché era stata una delle mie trasferte stonate basate sullo stordimento, non credo nemmeno di averci dato la dovuta importanza, al momento, e poi, una volta tornato a casa, quell’incontro, ma la cornice dei relativi tre giorni in solitaria anche, si è pacificamente dissolto nel ritorno alla mia routine: lavoro e impegni personali hanno oscurato quelle istantanee riemerse stanotte).
Il forte riscaldamento della macchina mi intontisce, tiro giù il finestrino per respirare il freddo intenso di gennaio.
La tipa del bar mi ha beccato stremato al cesso e mi ha chiesto se fosse tutto ok e io, che mi stavo piano piano riprendendo ma ero ancora del tutto esausto, le ho risposto che non c’erano problemi ma magari una coca cola mi avrebbe fatto bene, dicono che funzioni per malesseri del genere, l’ho seguita verso il bar, mi piaceva tutto di lei: i suoi capelli corti blu, i piercing al naso e alle orecchie, la quasi totale assenza di sopracciglia, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso mentre semplicemente mi versava da bere nel bicchiere e io mi sentivo da schifo nei miei vestiti sporchi.
Non manca molto a casa quando vedo qualcosa sulla strada e rallento. Cosa può essere? Mi sembra una macchia nera, una macchia nera sulla strada nera, un’ombra?, un’ombra nelle tenebre?, a furia di paranoie mentali mi sembra di diventare pazzo.
Accosto, scendo e assorbo il freddo che mi martella la pelle, taglia le guance. Mi avvicino alla cosa, non passa nessuno, sono l’ultimo uomo sulla terra. La cosa non è una cosa, è un animale, o almeno così sembra. Pare un riccio, tutto impacchettato su se stesso, tutto rannicchiato, non capisco dove si trovi la sua testa, lo tocco con la punta delle Vans e si mette a tremare: ha paura: avverte la presenza di un estraneo, cioè io. Se lo lascio qui prima o poi qualche macchina passerà e lo metterà sotto, massacrandolo. Intorno a noi è solamente oscurità, non so dove mettere la cosa, il riccio, l’animale misterioso. Che cazzo di gelo. Lo dicevano: sarà l’inverno più rigido degli ultimi trent’anni.
Lo tocco un’altra volta e lo vedo muoversi. La cosa si muove, lentamente procede con le sue zampette nel nulla, emette dei rumorini bizzarri, la piccola creatura. Piscio sulla strada, mi svuoto per la seconda volta e mi viene fame all’improvviso.
Prendo la bestiola e la carico in macchina, la metto sui sedili dietro, accendo la luce dell’abitacolo e la scruto: la cosa non è un riccio e proviene da un altro mondo. Metto in moto e parto, dallo specchietto continuo a tenere gli occhi sulla creatura.
A questo punto credo di portarla da me, se non altro ho salvato qualcuno.
«Ti va di stare a casa mia per un po’?» gli domando, lui mi risponde con un timido verso che non riesco a decifrare, ma che prendo come un cenno di approvazione.
Arrivo a Busto Arsizio che sono le due meno dieci, la città è deserta, la fame mi è cresciuta notevolmente e mi mancano le forze, quasi tremo, parcheggio l’auto in centro, vicino a Mc Donald’s.
«Tu rimani lì, ci metto un attimo», dico alla creatura che è sempre sui sedili dietro, immobile. Entro nel ristorante, completamente desolato, ordino un menù con il Crispy Mc Bacon alla ragazza in cassa, visibilmente stanca, sfatta ma aggraziata nei modi, gentile, sono l’ultimo cliente della notte, io. La guardo intensamente: i suoi capelli corti blu, i piercing al naso e alle orecchie, la quasi totale assenza di sopracciglia, non riesco a toglierle gli occhi di dosso mentre semplicemente mi prepara la busta con il panino e io mi sento da schifo nei miei vestiti sporchi.
Una volta entrato in macchina comincio a mangiare avidamente quella roba dolciastra, del tutto appagato dal suo sapore matematico artificiale, calcolato a puntino nei laboratori, studiato da esperti, impettiti, intenti a cucinare in avveniristiche officine culinarie, dediti a ricercare il gusto chimico perfetto, per poi sintetizzarlo e ricrearlo nella forma semplice dell’hamburger. Mi immagino questi cupi scienziati davanti a me, mi squadrano da capo a piedi mentre divoro le ultime patatine rimaste nella confezione di cartone e tiro un sorso di bibita gasata dolcissima.
Nel giro di pochi secondi mi accorgo che la cosa dietro di me è scomparsa.