
Anita Pankoff, Ragazza nel vento
“Che sia un modo tutto diverso di concepire quello che scriverò d’ora in poi?” Così Francesco Quaranta a proposito di Le risposte del karma, che a dispetto del titolo forse fuorviante (e pensate che quello di lavorazione era KarMa-rio) è “il primo racconto che mi soddisfa un bel po’”. Soddisfa anche noi, e tanto (ma non è il primo).
Ilustrazione di Anita Pankoff (Ragazza nel vento).
Non è mica un genio Mario e lui lo sa bene. A scuola tirava a campare con stratagemmi nemmeno poi così originali, e sì, si era laureato con la tesi più comoda a disposizione dopo una carrierucola dalla media trascurabile, per poi finire con l’ereditare la farmacia del padre, proprio come da lui aveva ereditato la stempiatura aggressiva e la erre moscetta. Mica sono un cervellone, pensa spesso, però a me pare di saperle tutte queste cavolo di rispostine del quiz televisivo. Questo si dice Mario, non colpevole del proprio orgogliuccio, mentre rumina il boccone appena tagliato con geometrica pazienza. Il pasto, primo e secondo in porzioni striminzite cucinati dalla moglie Evelina, lascia a desiderare come la scelta dello sfiorito abbigliamento casalingo di lei. Mario ingolla tutto, primo, secondo, smorfie e abito della moglie, con un sorso di Ferrarelle. Sotto la trita luce giallastra del lampadario dal cappello storto che mai avrà voglia di raddrizzare, non pensa alla cena né alla moglie, ma si compiace nel trovare le risposte alle domande del quiz, prima che il conduttore abbronzato possa correggere i concorrenti, ignoranti e stupidotti che però sembrano soddisfatti anche nella sconfitta, raggianti, infusi di una sportività tutta televisiva: bellissima esperienza, grazie, saluto mamma e zia a casa, grazie mille per l’occasione anche se mannaggia ho perso.
Qualche risposta Mario la esterna pure ad alta voce, quella che ritiene un virtuosismo particolare, un colpo di reni intellettuale, lo fa per la moglie, per assicurarsi che entrambi vivano ancora sullo stesso piano dimensionale, ma in realtà si rivolge alla tovaglia come se buttasse la parola lì per caso mentre appoggia la bottiglia dell’acqua. Evelina grugnisce e poi certifica con un mugugno quando il ceffo del programma conferma che Mario ha ragione.
Potrei vincere a mani basse: frasi che Mario erutta sull’onda di un entusiasmo da viscere appesantite, tra telecomando, tovagliolo e posate, frasi che la moglie spegne in un’alzata di sopracciglia, nemmeno Mario avesse detto chissà quale stronzata. Tanto non ha la minima iniziativa a iscriversi e abbandonare per una sera la cena sgradevole e la silenziosa compagna solo per dimostrare qualcosa a qualcuno. Cosa poi? Che gli elettrodomestici e il mobilio non sono affatto i confini del suo regno abitato da quella caricatura di una regina? O forse provare, perché no, a cambiare qualcosa nell’ordine della quotidianità catatonica della periferia annacquata?
Del premio in denaro non ho mica bisogno, si dice al momento del caffè, che senso ha mettersi a repentaglio per questo infantile senso di orgoglio? Mica mi renderebbe migliore stare sotto quei riflettori. Si sente adulto, responsabile, sul monte della sua piccola fortuna, si ritiene migliore rispetto alle immagini nello schermo solo per il fatto di auto escludersi dalla pagliacciata. L’applauso del pubblico in studio è tutto per la sua superiorità.
Solo più tardi, ovviamente, mentre si sbrodolerà di dentifricio metà della faccia e si appresterà a infilarsi nel letto frigido e quieto, si sentirà privato di qualcosa. Castrato e asfissiato saranno le parole che lampeggeranno nella sua mente, anche se forse la risposta più corretta sarebbe condannato. La accendiamo? Risposta esatta. Allora aprirà la finestra del bagno, in cerca di luci, d’aria, di una bollicina di ignoto e invece vi troverà delle inferriate e qualche abbaiare remoto. Si dice che la notte fuori sia cattiva, si dice.
Non ha problemi d’insonnia, anzi, Mario il sonno lo attende e se lo gusta: spegnere tutto e godersi un silenzio diverso da quello delle sue giornate, un silenzio carico di promesse e potenzialità, ben altro dalla bonaccia moscia della noia. Non ha problemi a dormire, lui ci si rintana eccome nel suo sonno comprato a suon di materassi dell’elefante e doghe in faggio, non appena rischia di trovarsi a pensare alla moglie con cui è incastrato da quindici anni. Proprio come lui, Evelina scelse di sostare sui pochi pregi che aveva, finché la giovinezza glielo permise; e dopo, una volta accomodata al suo fianco, scesa dall’altare si tolse i tacchi e decise di far appassire pure quelli, incartarli e ficcarli in un cassetto come se nessuno dei due ne avesse più bisogno.
Il rischio di scoprire di non amarsi era stato messo a tacere quando entrambi si erano accontentati e avevano tirato i remi in barca: stipulare il contratto del sacro vincolo del matrimonio e istituire l’azienda di una famiglia era stato il traguardo che ci si aspettava da loro e semmai ci potesse essere stato dell’altro… Andare oltre era parso un rischio, rischiare è un male al giorno d’oggi, con la crisi poi, non è periodo per affidarsi a colpi di testa, sentimenti, vanità, è un attimo che ti ritrovi fuori dal seminato e ci si pente, ci si pente eccome. Ma quanti rimpianti sbucano fuori da una vita senza pentimenti.
Ecco, a quel punto del ragionamento di solito Mario si addormenta a forza, appena prima di focalizzare un ultimo pensiero: caro mio, se mai hai avuto il coraggio di alzare la testa e sottrarti a questa vita, è proprio tutto qua quello che meriti.
Spesso la sera, tra le cinque e le sei, dopo aver lasciato lo stagista in farmacia e ben prima di sedersi a cena, lo si trova a corricchiare tra gli sportivi dell’accaldato lungofiume, sotto il viale alberato. Suda tutti i nervosismi e annaspa negli incastri delle giunture, corre sulla scia della sua personal trainer ventinovenne da dodici euro l’ora pause escluse: partono affiancati, lei dà il passo, ma poi lui finisce immancabilmente tre metri indietro. Lo sfondo del fiume è sempre lo stesso, noioso pure lui, Mario si focalizza sulla clessidra morbida di busto e culo della donna, inala il profumo di shampoo alle mandorle congiunto al piacevole agrodolce del sudore. Come l’asino che rincorre la carota, sogna di scoparsela spesso, anche subito, in corsa, oppure sgusciare fuori dalle inferriate della finestrella del bagno alla sera, correre da lei abbaiando, infilarla e montarla senza ritegno. La verità è che si accontenterebbe anche solo di tenerla per mano e confidarle che lui potrebbe diventare milionario con un quiz televisivo.
Non è un brutto uomo Mario, se lo rammenta spesso come se ancora potesse essere un asso nella manica per fare colpo: il leggero sovrappeso è l’accettazione, la zavorra di desideri repressi, la stempiatura invece è genetica, lo abbiamo detto, ma il fatto che lui non sappia portarla con dignità é indice di come abbia lasciato la fiducia in se stesso ad adagiarsi su frivolezze e inconsistenze evaporate poi con l’età.
Una sera particolare Mario, complice un acciacco insignificante ma che ombreggia di vecchiaia le sue riflessioni, trova un istante di coraggio in un posto impensato. Nell’annebbiamento dello sforzo dovuto al jogging, nella vocetta preoccupata della giovane personal trainer che gli chiede se si sente bene, Mario fissa l’ombelico scoperto di lei, ci cade dentro e si riscopre invischiato nella sua coscienza atterrita. Lì coglie un concetto in tutta la sua subdola sottigliezza, spunta da anni e anni di sedimenti di cultura indifferenziata, ne vede la lenta azione erosiva: il karma è soltanto buon senso, Mario lo capisce anche se non è un genio. Il grande lavoro del karma sta tra azione e inazione: cosa Mario ha fatto in passato, quello che non ha avuto voglia di fare e ciò che ha avuto timore di tentare. Questa è la vita che ti meriti anche se in fondo non hai fatto nulla di male rispetto al bilancio dell’universo.
Si riprende in fretta dall’acciacco, respira lento e tenta di tirarsi fuori dal buco nero di quell’ombelico, la personal trainer è indecisa se ritenerlo spossato o al solito pervertito, ma in ogni caso decide che è meglio rientrare.
E ancora una volta Mario dovrà sedersi a tavola e sorbire l’ora della cena accanto alla moglie che lo tratta come se fosse un animale da compagnia e niente più, l’ignorarsi a vicenda per non doversi odiare, tornare alle domande del suo conduttore abbronzato, domande per cui ha tutte le risposte perché la risposta alla mediocrità è la mediocrità stessa.
E passano i giorni ma Mario non è mai uscito dall’ombelico della personal trainer, è ancora là a fluttuare in un utero di possibilità bruciate. E il buio è così colmo da soffocarlo.
Finché una sera, tra i concorrenti del suo quiz, c’è proprio lei, la bella personal trainer. Questa volta splende con i capelli sciolti e ha l’addome coperto, Mario può ammirarla, nessun rischio di cadere. Anche se non ne azzecca una di domanda, la donna è tutta scossa da un’elettricità che sa di novità e avventura, Mario la invidia con la forchetta bassa, non pensa più alle risposte perché non è il gioco il punto, nemmeno i riflettori e neppure gli applausi del pubblico o il premio. Infine guarda la moglie Evelina e nel suo accigliarsi di rimando trova il riflesso di milioni di costrizioni autoimposte, ingozzanti, stantie, insipide e capisce che in questa sua vita le illuminazioni, le verità, le epifanie, i lampi di genio non cambiano un cazzo, che l’infelicità è un po’ il prezzo della comodità.
Si alza, prende lo schermo ultrapiatto tra due dita e lo inclina fino a farlo cadere a terra. Nel lamento della plastica stupita, l’audio del programma non si interrompe, allora Mario calpesta l’apparecchio un paio di volte con il tallone destro, con cattiveria, ma senza alterare il viso perché si tratta di un’esecuzione formale. E a ogni pestone che assesta, Mario vede la moglie perdere rughe e anni e gradi di smorfie disilluse, Evelina ritorna brutalmente quella di un tempo. Una sconosciuta oramai.
Ma poi tutto tace e l’uomo si ritrova seduto al tavolo, forchetta in mano, polpettone penzolante, sotto il lampadario storto che mai avrà voglia di sistemare e il televisore ultrapiatto che mai avrà il coraggio di spaccare. Anche se lo facesse non servirebbe a nulla, l’indomani andrebbe a comprarne uno ancora più moderno e voluminoso. Sono quei grandi passi che ormai non fanno più parte di lui.
Si rivolge allora a ciò che invece può cambiare per davvero: il tuo polpettone del cazzo fa schifo, Evelina, cucini di merda.
Pingback: Cover #5: Polpettone | La Nuova Verdə