CASUAL FRIDAY #28: LE CINQUE FASI

She had sex with the Death

Inchiostro Lisergico, She had sex with the Death

Casual Friday (qui e su Facebook) è la rubrica di Verde nata per promuovere un nuovo reading code. Ogni settimana un racconto inedito di un autore diverso che cercherà di farvi ridere, divertirvi o semplicemente imbarazzarvi.
Negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione: sono
Le cinque fasi del lutto che Flavio Ignelzi ci racconta oggi in cinque microstorie. È venerdì, rilassati!
Illustrazione di Inchiostro Lisergico (She had sex with the Death).

1. Semaforo (Negazione)
Dice: dovremmo ripetere gli esami perché lo sai benissimo in che stato versano le strutture pubbliche italiane, in particolare quelle della sanità.
Dico: l’ho pensato anch’io.
Semaforo giallo. Rallento.
Dice: secondo me è la cosa più probabile, che siano stati sbagliati gli esami, perché con quello che prendono gli infermieri figurati se si preoccupano dei pazienti, come niente hanno scambiato le provette degli esami e adesso una persona malata penserà che è sana come un pesce senza sapere che non è così.
Dico: già.
Semaforo rosso. Mi fermo.
Dice: e non farà ulteriori esami, e si tranquillizzerà e non si curerà e si ritroverà aggravata tra qualche tempo per un errore di un infermiere sottopagato strafottente.
Dico: può essere.
Semaforo rosso.
Dice: che poi non ha mai sofferto di niente, e mi pare altamente inattendibile un risultato del genere, che diagnostica, si dice così?, che diagnostica una malattia di quel genere che non ha mai presentato sintomi prima d’ora.
Dico: certo.
Semaforo rosso.
Dice: insomma, io non ci credo.
Dico: sì, ora conto fino a dieci e se il semaforo diventa verde, nostra madre non ha niente.

2. Giro domenicale (Rabbia)
Prima che gli altri riuscissero ad intervenire, l’aveva già colpito parecchie volte.
Perché era rimasto indietro, perché era l’ultimo del drappello e gli altri erano avanti di un bel pezzo di strada. È normale, capita, anche ai ciclisti della domenica.
Erano partiti in cinque, quella mattina, avevano deciso per la stradina di Sant’Arpino perché lui non era in forma. Per quello che aveva passato, per via del lutto che lo aveva colpito così, all’improvviso, senza che nessuno se lo aspettasse.
Lui era sembrato contento, quando glielo avevano proposto.
Una domenica in bici, come al solito, come se non fosse accaduto nulla. Come se il funerale di due giorni prima fosse quello di un’altra persona, di uno sconosciuto.
Si erano incontrati al solito posto, meno chiassosi rispetto alle altre volte, questo sì, ma comunque entusiasti per il giro.
Anche lui sembrava a posto, senza particolari problemi, serviva per farlo svagare, per permettergli di pensare ad altro, almeno per il tempo del giro.
Poi è successo che è rimasto indietro, una cosa normale, lo ripeto, per i ciclisti della domenica. Il gruppo si sfilaccia, non viaggia sempre compatto.
Quando gli altri quattro si sono accorti che era l’unico rimasto indietro, si sono fermati e si sono girati, subito, senza pensarci troppo, senza pensare a cose brutte.

Però, appena lo hanno visto da lontano, hanno capito immediatamente che c’era qualcosa di sbagliato. Perché era smontato dalla bici, perché la bici era a bordo strada, per terra, e perché lui aveva questo bastone in mano.
Hanno impiegato pochi secondi a raggiungerlo e a capire quello che stava facendo.
Il cane era disteso, sanguinante, respirava a fatica, guaiva, ancora attaccato alla catena.
Anche lui respirava a fatica. Era sudato, dal caschetto scendeva qualche goccia di sudore, e stringeva il ramo nodoso con i guanti senza dita da ciclista.
Ripeteva che il cane gli ringhiava e lo voleva sbranare, ma erano scuse.
Il cane era legato. Era ancora legato. Era sempre legato. Lo conoscevano tutti. Abbaiava sempre quando passavano i ciclisti, ma non aveva mai sbranato nessuno. Abbaiava perché così il padrone gli aveva insegnato.
Qualcuno suggerì di andare via, qualcun altro gli sfilò il bastone dalla mano, lo accompagnarono alla bici, lo misero in sella.
Aveva reagito così per quello che aveva passato. Per quello che stava passando, per il lutto.
Ognuno reagisce a suo modo, no?
Speriamo che il cane non muoia. Speriamo.

3. Il terzo tiro (Patteggiamento)
Ecco. L’ho accesa. Il trucco l’ho trovato, il trucco è semplice, fare meno tiri. Lasciare che si consumi da sola. L’importante è che non aspiri, non così spesso, non come prima.
Un tiro sì, adesso, altrimenti mi si spegne.
Ecco. Un tiro.
Posso fare qualsiasi cosa con la sigaretta accesa tra le dita. Tra indice e medio. È da quando avevo diciassette anni che fumo. Sono quasi trent’anni. Sono un giocoliere del tabacco, un illusionista delle paglie, un prestidigitatore delle bionde.
Potrei lavorare in un circo. Posso scrivere, telefonare, guidare, leggere, mangiare.
Potrei anche dormire con la sigaretta accesa, se volessi.
Un altro tiro sì. Adesso un altro tiro.
Se riesco a fare così, massimo tre tiri per ogni sigaretta, diminuisco radicalmente. Quanti tiri è una sigaretta? Accidenti, non li ho mai contati.
Dovrei fumarne una per intero, giusto per contarli, giusto per sapere.
Poi mi alleno a fare meno tiri. Tre è il numero giusto, secondo me. Uno per iniziare, per accenderla bene; uno a metà, quello del gusto, quello del piacere dopo il caffè o dopo aver fatto l’amore; l’ultimo verso la fine, prima di spegnerla, l’ultimo per resistere fino alla successiva.
Direi che va bene.
Disciplina e forza di volontà ed è fatta. È tutto come prima. Quasi come prima, senza grandi stravolgimenti.
Come dice il dottore. Cioè il dottore ha ragione, dovrei smettere del tutto, ma se riduco in questo modo può andare bene lo stesso, no? Devo chiederglielo, alla prossima visita, al dottore.
Tre tiri e stop. E fanculo il carcinoma.
Adesso un altro tiro, però. Il terzo tiro.

4. Apri la porta (Depressione)
«Dai, non fare così, apri la porta».
L’uomo accostò la testa al legno del telaio. Sua figlia era dentro, lui poteva lasciarsi andare a posizioni non consone, un po’ scoraggiato, un po’ scocciato.
Bussò di nuovo, sempre con delicatezza, la nocca del medio come un picchio leggero che quasi non produceva rumore, accanto al cartello appeso al centro della porta della cameretta, un cartoncino che invitava tutti a stare alla larga, con un divieto d’accesso rosso vivace.
«È ancora chiusa dentro?»
Sua moglie si affacciò nel corridoio, asciugandosi la mani col grembiule.
Lui fece una smorfia di risposta. Lei si avvicinò.
«Amore, è pronta la cena. Vieni a tavola», disse alzando il tono della voce.
I due rimasero in attesa, in silenzio.
«Non è poi la fine del mondo», aggiunse timidamente.
«Ma cosa vuoi saperne che…» Il pianto divorò le ultime parole della frase che arrivava dall’altra parte della porta.
La donna fece un respiro profondo, mantenne un bel po’ di fiato e calma.
«Amore, almeno apri la porta che ti porto qualcosa da mangiare. Ho fatto le polpette che ti piacciono tanto».
In risposta soltanto singhiozzi e strepiti attutiti dal cuscino.
«Che facciamo?» bisbigliò lui.
«Lasciamola in pace. Magari tra un po’ si calma. Vieni a mangiare», bisbigliò lei.
A lui parve un’ottima idea, visto che s’era fatta una certa e lo stomaco reclamava attenzioni.
«Amore, noi siamo di là, in cucina», disse.
La coppia si allontanò in buon ordine.
Solo quando entrò in cucina lui sbottò: «Ma guarda tu se doveva essere un dramma lo scioglimento di questi Duran Duran».

5. Separato (Accettazione)
Finché non ci passi, non puoi capire cosa vuol dire. Ti tolgono tutto. Moglie e figli e gatto e casa e soldi e serenità e un posto in cui tornare tutte le sere.
Soprattutto un posto in cui tornare.
Nevica e ogni due minuti devo azionare il tergicristallo sennò non vedo niente.
Guardo casa mia (quella che era casa mia) dal finestrino della macchina, vedo l’ombra di mia figlia (quella che è mia figlia un fine settimana sì e un fine settimana no) da dietro la tendina della cucina, vedo l’ombra di mia moglie (quella che era mia moglie fino a diciannove mesi fa) che apparecchia la tavola.
Aziono di nuovo il tergicristallo.
Non potrei stare qua. L’avvocato me lo ha detto. In auto, davanti casa. Rischio di perdere quel poco che ho. Ma cos’ho? Mia figlia un fine settimana sì e uno no? Il monolocale dove mi sono trasferito dopo la separazione? Cosa mi è rimasto?
Aziono il tergicristallo e lo vedo. Un SUV parcheggia a tre metri da me. Spegne fari e motore. Scende un uomo che apre subito l’ombrello. È giovane. È più giovane di me. O forse sono io che mi vedo vecchio. È vestito fighetto. È lui.
Chiude l’auto col telecomando.
Devo agire. Ho pochi secondi prima che entri in casa. Soltanto pochi secondi prima che mia moglie (quella che era mia moglie) si accorga che è arrivato.
Smonto dall’auto. Non ho l’ombrello ma non ne ho bisogno. La neve è l’ultimo dei miei problemi.
Mi avvicino all’uomo.
Ho pochi secondi e un’occasione che forse non mi si ripresenterà più. Mai più.
Lui mi vede e si spaventa. Mi conosce bene, evidentemente. Non si mette ad urlare, ma vorrebbe farlo.
Infilo il muso sotto il suo ombrello e glielo dico: «Trattale bene. Falle felici».
Lo dico e mi giro, torno in macchina. Metto in moto e vado via.

Flavio Ignelzi

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