
Verde 22, marzo 2014 (In copertina: Cavellini writing on nude male, Vile Magazine vol 3 n.2, estate 1977)
Storie Nere #11, penultima puntata passata alla storia (di Verde) per il colpo di scena (senza strascichi) di Luca Carelli che scrive decentemente un racconto praticamente bello. Giorgia (Verde 22, marzo 2014) prende ispirazione dalla vicenda di Giorgia Padoan, strangolata la mattina del 9 febbraio 1988 nel suo appartamento di Torino. Ventincinque anni dopo, a sorpresa, il caso viene riaperto…
Caro fratello,
è passato quasi un anno da quando i giornali hanno parlato per la prima volta di Giorgia e papà. Naturalmente nessun giornalista ha avuto il coraggio di scrivere il suo nome, ma per noi è stato uno scherzo, o forse un gioco, capire che si trattava di lui. Non ci vediamo da cinque anni, fratello caro, o forse sei – aiutami a ricordare; al mio posto tu diresti che è passata una vita intera, un modo come un altro, il più sciatto, per nascondere il senso profondo di una negazione arresa, o dei sentimenti assorti che abbiamo smesso di interrogare. La notte scorsa, fratello amato, ho sognato di noi, noi nella casa in cui siamo cresciuti, e mi è tornata alla mente quella mattina passata insieme, soli forse per la prima volta, nello splendore bianco della luce che illuminava la polvere del talamo dei nostri genitori, l’unica camera che, non lo avrai dimenticato, papà chiudeva a chiave ogni volta e con cura. Probabilmente, fratello adorato, era soltanto un sogno nel sogno, perché ho rivissuto l’eccitazione di varcare quella soglia che fino alla morte di mamma – e alla trasmutazione di papà – rimase sclerotizzata in quel sigillo sacro di invalicabilità e ossessione che tanti dispiaceri diede al mondo, così come ci appariva allora. Ricordi l’emozione di danzare come serpi azzoppate attorno al loro letto incantato, apparecchiato come una bara dalla pelle così splendida e perfetta da rendere tanto seducente e alla portata il desiderio di baciarla con le nostre labbra asciutte e serrate? Io non l’ho mai dimenticato, così come vivono in me, alimentate dal loro frusto grigiore, le immagini di orrore che dipingevo sul tuo viso, con le mie mani dure ma innamorate del tuo corpo fragile e lineare. E quel che all’epoca assimilasti come un infingimento di visione, era soltanto una precognizione scheletrita, che non poteva tenere conto della luce del tempo – la stessa che ogni giorno ci guida.
Ricordi, fratello caro, il cassetto aperto, come depredato dalla stessa forza che reggeva immobile l’aria e l’atmosfera, tra quelle mura offese che avevano disimparato a respirare per certe scene mai viste? Era lì che s’offriva alle nostre mani conserte, su carta ruvida e macchiata come la lama che scioglie i fardelli. Messa in abisso in quello spazio inchiostrato, la vanità di nostro padre s’imponeva nella sembianza vigile e sgualcita di Giorgia; cos’era il suo viso se non la fobia sfidata dell’uomo che mimava e trasfigurava il dolore auto-riferito della sua scomparsa?
Dopo che mi hai aiutato, fratello amato, a immedesimarmi nelle loro lenzuola scarnificate, non ho più memoria di quella mattina, che leggo oggi attraverso i resoconti stentati di quegli stessi giornali occultati. Non ho mai pensato a Giorgia come madre, né provato l’urgenza di un amore di secondo grado per quella donna dipinta di sangue dal nostro sangue, ma talvolta ho sentito l’esigenza di trasmettermi in una presenza – una qualsiasi, purché a se stessa – che mi restituisse questi venticinque anni di assenza. A questo punto, fratello caro, mi domanderai quando e in che modo avrei potuto essere nostro padre, indietro nel tempo e nello spazio. E mi costringerai a deluderti e a confessarti che ho preferito di gran lena essere le pantofole di Giorgia, che quella mattina calzò appena alzata, dopo che nostro padre citofonò alla sua porta. Hai mai pensato a cosa sarebbe stato di noi se Giorgia non avesse risposto o non si fosse svegliata? Io lo so, perché sono stato le lenti a contatto che ha indossato correndo in bagno, prima di incontrarlo, e ancora l’ho vista nel suo pigiama rosa mentre porgeva una tazzina a nostro padre, trapassato in cucina in un sorriso alle sue mani. Ho sentito Giorgia scavarmi dentro con un cucchiaino bianco, nel barattolo dove io ero il caffè che ha preparato per lui; ho macchiato il tavolo, il pavimento freddo e le mani di mio padre quando luce, polvere ed esplosione furono; sono stato la collanina di Giorgia attorno al suo collo, fredda sulla sua pelle e violenta come una scintilla.
Aveva ventuno anni e portava quattro orecchini. Sul pavimento indossava il pigiama, sepolta sotto i cuscini. Il gas era ovunque, fuori e dentro la cucina. Attorno ai suoi capelli neri. Sulla polvere e le crepe e nelle ragnatele tese.
Ho provato a essere la rabbia di nostro padre e poi ho provato con la sua fuga. Non ha funzionato, e allora ho tentato con le sue mani e la sua voce ossuta. Solo alla fine mi sono misurato con la sua telefonata, quella che per venticinque anni è rimasta inascoltata, permettendoci di diventare ciò che nella sua testa non poteva più dissimulare. È così che ho scoperto, fratello andato, che ci sono cose che non sono mai stato. E non potrò mai provare a essere.
Giorgia Padoan è stata strangolata la mattina del 9 febbraio 1988 nell’appartamento di Via Gottardo (Torino) che divideva con la madre. La ragazza, ventuno anni, conosceva il suo assassino: stavano facendo colazione in cucina. L’unica traccia su cui lavorano per più di due anni gli inquirenti è una impronta di scarpe militari numero 44 trovata sulla scena del crimine. Nel 1991 la pista decade: l’impronta è di un agente accorso nell’abitazione quella mattina.
Nel marzo 2013 il caso è stato riaperto. Le indagini puntano su un ex compagno di studi di Giorgia, ora professore quarantesettene, che alcuni giorni dopo il delitto avrebbe telefonato per due volte al padre della vittima, confessando l’omicidio.
Il nome dell’omicida sul diario (La Repubblica, 12 febbraio 1988)
Delitto Padoan, una voce dal passato accusa il vecchio compagno di corso (La Repubblica, 6 marzo 2013)