STORIE NERE #10: CHIARA

Verde 19, dicembre 2013 (in copertina: Rocco Lombardi, Una piccola bestia in una pozzanghera d’acqua)

Verde 19, dicembre 2013 (in copertina: Rocco Lombardi, Una piccola bestia in una pozzanghera d’acqua)

E se vi dicessimo che la decima Storia Nera è la migliore della serie? Se non avete mai letto nulla di Luca Carelli, cominciate da Chiara (Verde 19, dicembre 2013), la storia di Chiara Bariffi, trentenne di Bellano scomparsa nella notte tra il 30 novembre e il 1 dicembre 2002. Chiara avrebbe dovuto percorrere quattro chilometri di lungo lago (di Como) per raggiungere casa, ma…

La ragazza coi capelli neri ha paura di qualcosa. Guarda la donna davanti a lei, guarda la lacrima che le riga il volto e poi muore tra le labbra; per un attimo, come una cicatrice, un sorriso rimargina la ferita dei gemiti che le vibrano in gola, poi le braccia si muovono e le mani si avvicinano al viso della ragazza. La donna è anziana, ferma e sospira; la ragazza è giovane, ha la pelle rovinata e lo sguardo ribaltato, messo in abisso dalla chimica che dentro di lei guida e interpreta i suoi movimenti. La ragazza guarda quelle mani giunte e le respinge con le dita, che scivolano su vecchie frange di pelle grigia. Il sorriso della donna scompare e la ragazza schiude le labbra. «Ferma», le intima chinando il capo, «tu non sei mia madre». La donna chiude gli occhi e precipita silenziosamente in un buco nero che ha la forma della confusione, ma è soltanto una vertigine di disperazione. Poi si volta verso la finestra, ed è allora che registra inconsapevolmente l’attimo in cui il sole affoga nel lago, dietro una nuvola rossa e sottile; nello stesso momento, un capello grigio tramonta sulle spalle della donna. È lungo come una tenia.

All’inizio era il sospetto. Poi venne il disagio nei suoi occhi di fronte ai loro sguardi. Prima ancora ci fu una sottile linea di imbarazzo e infine la certezza, sotto forma di illuminazione: non era lei a essere diversa. Quella che gli altri chiamavano depressione – o deliri psicotici, a seconda delle stagioni – era soltanto la consapevolezza di essere rimasta sola. Non era lei a essere cambiata, erano spariti tutti gli altri. Ma la cosa più spaventosa, pensava Chiara guardandoli in cucina, attraverso lo specchio (avevano trovato, chissà come, un varco nella superficie, e adesso erano dalla parte sbagliata del vetro, quello suo), era l’altra verità: tutte le persone che conosceva, a cominciare dai genitori, erano state sostituite. Erano ancora lì, attorno lei, ma non erano più loro. Erano altri. Erano sosia.

Chiara collezionava pensieri ricorrenti. Li allineava nella sua testa, sulla fronte o appena sopra le orecchie, e li tirava a lucido tutte le volte che poteva, testandone resistenza e pervasività. Era una specie di personale divisione d’élite che rispondeva soltanto ai suoi ordini e che le permetteva di districarsi in quella matassa di allucinazioni e inganni che era diventata la sua realtà. Uno dei suoi pensieri prediletti, forse il più acuto tra i valorosi tenenti della sua mente, le suggeriva spesso che la depressione le aveva salvato la vita. «A quest’ora,» intonava con autorevolezza, «saresti sposata, con almeno un figlio e un lavoro serio». «E non mi sarei accorta di niente,» ribatteva Chiara con un sorriso, mentre qualcosa di nuovo e profumato annunciava l’alba nell’aria: presto i casermoni magenta che recintavano il suo orizzonte si sarebbero tinti di rosso, e il sole sarebbe emerso da quel lago di sangue per sciogliersi nei suoi occhi intorpiditi dal freddo. Allora Chiara avrebbe potuto fare colazione, fissando le sue mani e stando ben attenta a muoverle con cura per evitare rumori. Avrebbe disposto le fette biscottate una sull’altra, fino a comporre una torre alta quanto la tazza; poi avrebbe mescolato il caffè freddo con il latte di soia e finalmente si sarebbe stesa a letto, dove contava di restare fino a sera, quando i sostituti crollavano nelle loro stanze, liberando la casa della loro presenza abusiva. Chiara passava buona parte della giornata a guardare: roteava gli occhi e aggrottava le sopracciglia fino a sentirne la pressione sul setto nasale; le narici pulsavano, la fronte calda si arrossava, tutte le ossa del cranio le facevano male e respirava con fatica, ma andava bene così: era un tipo di esercizio che aveva ideato per aumentare la profondità del suo campo visivo.

Il resto del tempo lo passava leggendo: i ritagli di giornale che aveva accumulato negli anni, con i casi di cronaca simili al suo; i fascicoli di Lotta Raeliana, la rivista che ogni mese le arrivava a casa; le pagine dei quaderni che riempiva, tre per volta, ogni settimana. Di pomeriggio guardava molta tv: film a metà, pubblicità, varietà e sopra ogni cosa giochi a premio; una volta, per caso, aveva riconosciuto tra il pubblico un viso familiare, identico a quello di sua madre – quella vera: fu uno dei suoi pensieri ricorrenti a suggerirle che probabilmente avrebbe ritrovato i suoi cari dentro la scatola nera. Chiara ci rimuginò per un po’ e infine dovette ammettere che aveva senso e il ragionamento filava, ma per cercarli là dentro avrebbe avuto bisogno di tempo, impegno, forza d’animo e di una vista molecolare – ma quella, forse, non era un problema.

Fu così che, senza volerlo, s’accorse che le pastiglie bianche che buttava giù tre volte al giorno facevano parte del piano. Come aveva fatto a non capirlo prima? Stava guardando una delle tante trasmissioni di cucina che andavano in onda a quell’ora quando la tv si spense in un lampo bianco e fuori esplosero gli allarmi delle macchine e le sirene dei negozi. Più tardi i sosia le dissero che si era trattato di un black-out, ma lo schermo opaco del televisore – dal riflesso grigio impalpabile dello stesso colore della pelle della finta madre – le aveva già restituito l’immagine aliena che le era stata cucita addosso e che faceva fatica a decifrare: ciò che vedeva, con la chiarezza di un riscontro, era un corpo stanco, appesantito, sul punto di esplodere, che si muoveva faticosamente e con un ritardo innaturale, come se i segnali di comando non fossero sincronizzati; un viso gonfio e dilatato; un sorriso uncinato da ganci invisibili e dolorosi; capelli radi e spenti, tagliati a strappi con le mani. Quella non era lei. Loro stavano tentando di sostituirla. Aveva senso, perché mancava solo lei. Scoprirlo era stato semplice.

Tutto tornava, eppure non bastava per permettere ai giorni di non passare. Il tempo prendeva le ore, le ore consumavano i giorni, i giorni cancellavano i mesi e infine toccava agli anni. Non c’era verso di cambiare le cose e tutto restava immutato, come la profondità del lago. Chiara non prese più le medicine, si fece regalare uno specchio elegante e maestoso e imparò a dissimulare: smise di parlare dei sosia e a chi le domandava come stava, rispondeva sorridendo con riconoscenza insincera. Aprì la porta della sua stanza e riprese a uscire: andava nei bar a fare colazione, dal parrucchiere in centro, e a passeggiare per ore in riva al lago, finché i sostituti non le comprarono un’automobile.

Le dicevano che era un sollievo vederla così. Le ripetevano ogni giorno che sembrava rinata. Le assicuravano che era ormai guarita. Ma continuavano a osservarla. E a controllarla da vicino.

Un giorno, pensava Chiara, avrebbero abbassato la guardia. Presto o tardi si sarebbero voltati o avrebbero chiuso gli occhi.
Quel giorno sarebbe stato bello fuggire e lasciarsi tutto alle spalle.
Sarebbe bello ritrovare i miei genitori – quelli veri; mia sorella e tutti i miei amici. E i miei occhi, gl’occhi belli che avevo e che i sosia sono riusciti a sostituire.
Era un altro dei pensieri ricorrenti di Chiara, forse il più anziano tra i coraggiosi tenenti della sua mente; di certo il meno affidabile. Perché, e Chiara lo sapeva, sarebbe stato più facile imparare a volare e prendere la rincorsa nel cielo.
Sopra il lago, con la sua macchina nuova di zecca, oltre i confini del tempo.

Chiara Bariffi, trent’anni, scompare nella notte tra il 30 novembre e il 1 dicembre 2002 tra Dervio e Bellano (Lecco), a bordo della sua Daihatsu Terios. Avrebbe dovuto percorrere quattro chilometri di lungo lago per raggiungere casa. L’11 settembre 2005, in seguito alla segnalazione di una sensitiva, l’auto viene ripescata sul fondo del lago di Como, a 122 metri di profondità e a 100 metri dalla costa. Chiara soffriva di psicosi bipolare ed era affetta da sindrome di Capgras (o Sindrome del Sosia): era convinta che i genitori e i suoi cari fossero stati sostituiti da controfigure. Il 27 novembre 2009 Alessandro Vecchiarelli – l’unico indagato per la morte della ragazza – viene assolto dall’accusa di omicidio volontario. Il caso è rimasto insoluto.

Chiara Bariffi, la ragazza del lago (Scheda Chi l’ha visto)
Chiara Bariffi e la Sindrome del Sosia (Medicitalia)

Luca Carelli

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