La tredicesima Semiautomatica è stata pubblicata nel numero 20 di Verde (gennaio 2014), una delle nostre uscite che la comunità di Issuu segnala per contenuti illeciti e inappropriati. Colpa di Ausonia, che firma copertina e illustrazioni, dell’editoriale annoiatissimo o di un paio di contributi veramente brutti? (Per i completisti: gli altri numeri oscurati dagli Issuuers sono il 21 e il 22: Ausonia, Dino Valls e Guglielmo Achille Cavellini battono il cadavere di partigiana russa e il bimbo morto in copertina).
Un giorno Simone Lucciola ha scritto: era un anarchico, quindi non faceva un cazzo, dirà qualcuno al mio funerale, ma in questa puntata ci racconta invece che Ogni volta che devo lasciarmi qualcosa alle spalle mi trovo un nuovo lavoro del cazzo. Ne ho fatti e ne continuo a fare a decine…
Ogni volta che devo lasciarmi qualcosa alle spalle mi trovo un nuovo lavoro del cazzo. Ne ho fatti e ne continuo a fare a decine: sottopagati, umilianti, grotteschi, sempre per conto di qualcuno che per giunta ci crede, che ci ha basato tutta la sua vita e che vuole pure che tu ci creda, invece di sbottare a ridere come richiederebbe il senso comune dell’assurdo. Però se dovessi fare curriculum o richiedere una pensione allo Stato finora non potrei vantare che una sola assunzione regolare per un rapporto durato complessivamente 12 ore: a Civitavecchia con la Cecchi Gori, per un film orrendo di Antonio Albanese. Facevo una comparsata di due pose – di cui una per giunta rimasta fuori dal montaggio – nel ruolo, per l’appunto, di un albanese sfollato. Intendo dire che mi hanno infilato in mezzo a una folla di albanesi autentici, tra l’altro quasi tutti amici miei, e ci hanno ripreso con un carrello chiedendoci di gesticolare e di dire cose in lingua. E così giù un sacco di Te qifsha ropt e Te quifsha motren rivolti al noto cabarettista, che eseguiva gongolante il suo numero senza capire i vari mi scopo tua madre e mi scopo la tua famiglia di cui tutta la troupe dei generici gli è stata felicemente prodiga. Uno sketch veramente di sinistra, ci hanno dato centomila lire. Un’altra volta mi sono messo a fare il Gunga Din dei volantini del Sidis. Il lavoro consisteva nel girare tutto il basso Lazio, mezza Ciociaria e parte del Molise in macchina, scarpinando a piedi per ogni singola via di ogni singolo paese onde imbucare ogni singolo dépliant in ogni singola cassetta di ogni singolo inquilino di ogni singolo palazzo. Va da sé che interi pacchi di quella mondezza – per cui si sterminano quotidianamente intere foreste e che da tergo pesano come un basto da mulo – finivano direttamente nel primo secchione all’angolo, cosicché molte casalinghe solerti non hanno mai saputo quale fosse effettivamente il prezzo delle pummarole. Il nostro datore di lavoro era un paffuto ragazzone di campagna, capelli lunghi sulle spalle e una cultura musicale a base di Def Leppard, Eagles e America: sedicente comunista, teneva una bandiera cubana appesa sul tetto interno della station wagon con le sospensioni a terra, guidava a 180 fissi anche in curva per guadagnare tempo, e soprattutto bestemmiava in modo incessante e con una violenza inaudita e prorompente, quasi sacrale. Ma era anche un buon diavolo, al punto che quando ci fermava la stradale scendevamo sempre tutti dalla macchina e iniziavamo a guardarci sotto le suole delle scarpe chiedendoci vicendevolmente chi avesse acciaccato la merda e cercando infastiditi l’origine del puzzo. Le risate che ci siamo fatti, ogni volta che i poliziotti di turno, costretti a glissare sull’odorama per non mostrare l’eventuale coda di paglia, raccattavano frettolosamente le loro quattro carabattole e se ne andavano scornati a ramengo, lasciandoci ai nostri paesi di vecchi purpurei che a mezzogiorno sono sbronzi all’unica taverna, come porta di casa hanno una tenda da macellaio, claudicano sugli zoccoli in canotta bianca e si accoppiano da generazioni tra parenti.